Significati di virtù

Sulla virtù
Virtù ha almeno tre significati: innanzi tutto, capacità o potenza in generale; in secondo luogo, capacità o potenza proprie dell'uomo; in terzo luogo, capacità o potenza proprie dell'uomo di natura morale e con carattere uniforme e continuativo. . Nel terzo senso le definizioni della virtù si sottoarticolano come segue: a) la capacità di adempiere a un compito o ad una funzione; b) l'abito e la disposizione razionale; c) la capacità del calcolo utilitario; d) un sentimento o tendenza spontanea; e) lo sforzo. 
Cominciamo dalla capacità di adempiere ad un compito o ad una funzione. E' questo il concetto platonico della virtù; l'anima ha le sue funzioni e la virtù propria dell'anima è la capacità di adempiere ad esse. Le quattro virtù fondamentali sono la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza, come si usava chiamare una volta il coraggio. S.Ambrogio conferì alle virtù l'appellativo di cardinali. Tale appellativo fu difeso da S.Tommaso, che sostenne che solo le virtù morali possono essere principali o cardinali, poiché postulano la disciplina dei desideri, cioè appetitus rectitudo, che è l'essenza della virtù. Inoltre, l'importanza delle virtù cardinali ci viene ricordata da Dante nel Purgatorio: "I' mi volsi a man destra, e puosi mente a l'altro polo, e vidi quattro stelle - non viste mai fuor ch'a alla prima gente. - Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle". E più in là, verso la fine del Purgatorio: "Da la sinistra quattro facean festa, - in porpore vestite, dietro al modo - d'una di lor ch' avea tre occhi in testa. - Noi siam qui ninfe e nel ciel semo stelle; - pria che Beatrice discendesse al mondo, - fummo ordinate a lei come ancelle. - Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo - lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi - le tre di là, che miran più profondo". Beatrice rappresenta la teologia e le tre "che miran più profondo" sono le virtù teologali.
Le virtù etiche 
Passiamo ora alla concezione della virtù come abito o disposizione razionale, costante. E' quella di Aristotele che pone il coraggio tra le virtù etiche, vale a dire quelle che corrispondono alla parte appetitiva dell'anima, guidata e moderata dalla ragione, e che corrispondono al giusto mezzo tra due estremi caratterizzati da difetto e da eccesso.
Le virtù etiche, sempre secondo Aristotele, sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnanimità, la mansuetudine, la franchezza e la giustizia, che è la più importante di tutte. Questa concezione fu anche degli stoici e la più diffusa nell'etica classica. Secondo Cicerone la virtù è una disposizione dell'anima, coerente e concorde, che rende degni di lode coloro in cui si trova ed è di per se stessa lodevole, indipendentemente dalla sua utilità. Inoltre, definisce come soprattutto virile, cioè proprio dell'uomo, il coraggio di cui due sono i principali attributi: il disprezzo della morte e il disprezzo del dolore.
La virtù come saggezza
La virtù, come capacità del calcolo utilitario, fu introdotta da Epicuro, che considerò la saggezza come virtù suprema dalla quale tutte le altre derivano e che giudica sui piaceri da scegliere e quelli da rifuggire. Questa concezione fu ripresa da Bernardino Telesio nel Rinascimento ed è analoga a quella sviluppata da David Hume nell'Enquiry concerning the principles of morals e dall'utilitarismo inglese soprattutto da parte di Bentham nella Deontologia. Viene condiviso anche da Spinosa, secondo il quale vivere secondo virtù è agire, vivere, conservare il proprio essere in base alla guida della ragione, sul fondamento della ricerca dell'utile. 
La virtù come sentimento
Passiamo alla virtù come sentimento o tendenza, cioè come spontaneità. Si trova in particolare negli analisti inglesi del '700 e in particolare in Shaftesbury che nel suo Characteristics of men scrisse che in una creatura sensibile, ciò che non è fatto attraverso un'affezione, non produce né bene né male nella natura di quella creatura. Venne così postulato un senso morale a fondamento della virtù che Adam Smith nella Theory of Moral Sentiments chiamò simpatia. 
Ma fu però l'Illuminismo francese a diffondere questo concetto della virtù, con Rousseau e con Voltaire, secondo il quale la virtù non è altro che far bene al prossimo. Lo stesso concetto si trova in Auguste Comte, che indicò nella virtù la manifestazione dell'istinto altruistico, vero anche per i positivisti.
La virtù come forza e coraggio
Infine la virtù come sforzo, che è stata enunciata da Rousseau e fatta propria da Emmanuel Kant. Il primo nell'Emilio scrive: "Non c'è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta". La parola virtù deriva dalla parola forza. La forza è la base di ogni virtù. Kant nella Critica della Ragion Pratica definì la virtù come l'intenzione morale in lotta, identificando sostanzialmente la nozione di virtù con quella di coraggio: "La qualità speciale è il proposito elevato con cui si resiste a un forte, ma ingiusto avversario; si chiama coraggio, in latino fortitudo, e quando si tratta dell'avversario che l'intenzione trova in noi, si chiama virtù". 
Già Hegel aveva osservato che la discussione del problema morale aveva cessato di avere ai suoi tempi la forma di un discorso sulla virtù, divenuto astratto e declamatorio. Ai nostri giorni ha finito con l'assumere quella di un discorso sulle norme e sui valori da un lato, sugli atteggiamenti e i modi di vita dall'altro. Ma dobbiamo parlare della virtù o delle virtù? Il maggiore teorico novecentesco della nozione di virtù ripropone la tradizione classica delle virtù come tipi di condotta radicati nelle comunità di appartenenza contro la storica astrazione di stampo illuministico-kantiano.
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