Le virtù

FORTEZZA
Diciamo adesso qualcosa sulla virtù cardinale della fortezza. Non è certo un discorso facile e a buon mercato in un contesto di rilassatezza e di smidollatezza morale come quello in cui viviamo oggi, nella cultura del tutto facile, del tutto subito, del tutto abbondante, del tutto dovuto, dove forse schiacciando un bottone potremo un giorno evitare la fatica di rifarci il letto al mattino o di soffiarci il naso…
La fortezza è la virtù che spinge ad intraprendere e a portare a termine con costanza e coraggio il bene, nonostante le difficoltà. E’ quindi una condizione necessaria all’esercizio di ogni virtù, dovere ed opera buona. E’ un tratto caratteristico di chi è moralmente adulto. E’ condizione indispensabile per vivere il Vangelo autenticamente e in pienezza, ossia per essere vero cristiano, soprattutto in un clima post-cristiano, dove la fedeltà al Vangelo obbliga ad un vigoroso andare contro corrente.
Non è spavalderia, avventatezza. Non è forte (in senso cristiano) colui che, senza riflettere e senza discernere, si espone sconsideratamente al pericolo fisico o morale, ma colui che, dopo una giusta valutazione delle cose, sa affrontare fatiche e dolori per realizzare il bene. Colui che non si perde d’animo nemmeno di fronte agli insuccessi ed è irremovibile nel portare a termine la sua missione, costi quel che costi.
L’esempio più perfetto di fortezza, come sempre, l’abbiamo in Gesù stesso, dalla sua nascita nella povertà di Betlemme alla sua terribile Passione e morte in Croce, volontariamente abbracciate, nonostante la riluttanza della sua natura umana.
Il discorso della montagna, cuore del messaggio evangelico, è una proposta esigentissima, che non permette titubanze ed equivoci nel nostro donarci a Dio, anche quando ciò comportasse i più duri sacrifici, come quello di “cavare l’occhio” o di “tagliare la mano o il piede” (Mt. 5, 29)
Gesù richiedeva fortezza soprattutto agli Apostoli: chi voleva seguirlo più da vicino, appunto come apostolo, doveva essere disposto a vendere tutto per darlo ai poveri, condividere la sua vita raminga e randagia e persino rinunziare a seppellire il proprio padre o a prendere commiato da casa e, come coronamento di tutto, abbracciando la Croce, divenire partecipe del mistero della Sua dolorosissima Passione: <<Se qualcuno vuol venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua>> (Mt. 16,…)
Uno degli errori che oggi facciamo con più facilità, anche all’interno della Chiesa, e che costituisce una vera e propria adulterazione del Vangelo e un suo svuotamento, è quello di presentare un cristianesimo edulcorato all’acqua di rose, per non urtare la suscettibilità dell’uomo contemporaneo, allergico ad ogni esigente imperativo morale.
Ma così facendo, non ci rendiamo conto di presentare una caricatura di cristianesimo, adatto a tutti i palati, anche i più schizzinosi e perciò stesso insipido e insignificante. E così capita, secondo la predizione di Gesù, come al sale divenuto insipido, che non serve a nulla, se non ad essere buttato sulla strada e calpestato.
Mi ricordo la mia grande delusione, quando ancora bambino, mi incontrai per la prima volta con un frate francescano e già sentendo il fascino del Poverello di Assisi chiesi se la Regola dei frati era ancora austera come ai tempi di Francesco. Quel buon frate, forse per non spaventare una possibile vocazione, mi rispose di no, perché bisognava adeguarsi ai tempi d’oggi ecc… me ne uscii dal quel colloquio molto triste, sperando in cuor mio che quel frate non avesse detto il vero.
Penso che per formare una nuova generazione di veri cristiani, per lanciare una “nuova evangelizzazione”, più che fare sconti indebiti sul Vangelo, bisogna dare a giovani e meno giovani il gusto delle cose difficili, ardue, generose, il gusto della santità non i compromessi della mediocrità, giacché a tutti Gesù rivolge l’invito–comando “Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli”.
Esistono varie virtù (o atteggiamenti virtuosi) che sono connesse alla fortezza, come la magnanimità (o desiderio di compiere cose grandi per il Signore) e, soprattutto, la pazienza, o capacità di sopportare con fermezza e serenità le prove e le sofferenze inerenti alla vita umana e cristiana. Siamo chiamati ad essere pazienti (e forti) nella vita quotidiana portando in silenzio le fatiche del lavoro, il peso di un servizio a favore di un anziano, di un malato da anni gettato su di un letto e bisognoso di tutto, il disagio di accogliere con amore le asprezze, le debolezze e le stranezze di carattere del marito o della moglie, dei figli ecc., gli insuccessi nella vita, la molestia delle tentazioni e, finalmente gli inevitabili acciacchi della vecchiaia… e chi più ne ha più ne metta!.
Quanta pazienza e fortezza sono necessarie nella vita quotidiana di quasi tutti noi!
Tutto ciò può talvolta paragonarsi ad un martirio prolungato ed incruento che solo l’amore sa accettare, amore che affonda le sue radici nel Sacrificio di Cristo.
Il cristiano forte e paziente si santifica, espia il peccato proprio e del mondo, si prepara uno smisurato ed eterno grado di gloria (cfr 2 Cor. 4,17), diviene collaboratore con Cristo alla salvezza del mondo: <<Io completo nella mia carne – scrive S. Paolo ai Colossesi – quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa>> (Col. 1,2..)
Perciò S. Paolo considerava le sofferenze come una grazia e si gloriava della sue innumerevoli tribolazioni. Lo stesso faceva S. Pietro, quando scriveva: <<E’ una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente… A questo infatti siete stati chiamati>> (1 Pt. 1,19). E ancora <<Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi>>. (1 Pt. 4,13-14).
La croce produce, però, tutti questi effetti solo se trova in noi le dovute disposizioni: 
- solo se accettata umilmente dalla mano di Dio;
- solo se portata con pazienza e con sottomissione alla sua volontà;
- solo se illuminata dalla preghiera;
- solo se messa a contatto con la Croce di Gesù;
- solo se segnata dal Suo Sangue.
 Vorrei leggervi a questo riguardo una preghiera di San Francesco: <<Ti ringrazio Signore Dio per tutti questi miei dolori (…) e ti prego, o Signore mio, di darmene cento volte di più, se così ti piace. Io sarò contentissimo se tu mi affliggerai e non mi risparmierai il dolore perché adempiere alla tua volontà è per me consolazione sovrappiena>> (Leg. M,14,2).
 Interessante ricordare che fonte privilegiata di questa fortezza cristiana dovrebbe essere il sacramento della cresima, quando lo si riceve con le dovute disposizioni e se ne coltiva lo sviluppo in noi. La grazia conferita dalla cresima è simile alla potenza dello Spirito che invase gli Apostoli nel giorno della Pentecoste: <<Avrete forza dalla Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni>>. (At. 1,8).
 Lo Spirito Santo già lo si riceve nel battesimo; nella cresima si accentua la sua azione corroborante.
 Ed, allora, vedete, è necessario chiedere a Dio non tanto l’esenzione dalla sofferenza, ma la forza necessaria per trasformarla in un offerta d’amore.
 Un altro grande stimolo della fortezza cristiana è la meditazione della Passione di Gesù perché ci spinge ad un’imitazione generosa. Per questo il pio esercizio della Via Crucis, quando è compiuto con intimo raccoglimento, può giovare moltissimo a rafforzare i nostri propositi di bene.
Quel grande missionario popolare del 1700 italiano, il francescano S. Leonardo da Porto Maurizio, fu l’inesausto propagatore della Via Crucis, proprio nella convinzione che questa devozione costituisse una pista privilegiata per il rinnovamento religioso e morale del popolo.
Un campo di applicazione particolarmente attuale della virtù della fortezza mi parrebbe oggi quello del rispetto umano, come si suol dire, cioè di quella paura che ci spinge ad omettere dei giusti doveri religiosi o atti esterni di culto per timore delle canzonature o dei giudizi sfavorevoli di qualcuno. In una società secolarizzata è facile incontrare il sorrisino sarcastico o la parola pungente se uno si manifesta cattolico praticante. E questo soprattutto tra i giovani per cui è facile che anche se uno è sinceramente convinto di dover frequentare, per esempio, la Messa domenicale, ma si trova per strada o al bar con un gruppo di amici, non trovi il coraggio di salutarli e dire <<Io me ne vado, perché devo andare a Messa!>>. Oppure persino nella chiesa stessa, uomini che potrebbero ricevere Gesù Eucaristico (e lo desidererebbero) ma si sentono paralizzati da una stupida forma di rispetto umano ad accostarsi all’altare. Ho visto militari, che magari avrebbero partecipato con coraggio ad un’azione bellica pericolosa, avere un timor panico nel manifestare pubblicamente la propria fede e convinzione cristiana. 
Per un rilancio cristiano ed umano della nostra società abbiamo veramente urgenza di uomini e donne spiritualmente forti, dalla spina dorsale solida e non di farfalline svolazzanti ad ogni soffiar di vento. Gesù ha detto che sono i violenti a impossessarsi del Regno dei Cieli. Non certo i violenti contro gli altri, perché Gesù contraddirebbe se stesso, avendo esaltato i pacifici ed i miti ed umili di cuore, ma i violenti contro se stessi, cioè tutti coloro che sanno dominare con forza le proprie passioni disordinate, le proprie paure, incostanze e indecisioni. 
Sì, non sono forti quelli che battono i pugni sul tavolo e sbattono le parte: costoro sono dei poveri deboli, psicologicamente e moralmente!
Sono veramente forti coloro che sanno porgere l’altra guancia o rispondere con un sorriso ad un insulto… Come cambierebbe il mondo se tutti noi ci sforzassimo ad avere un po' di questa forza! Ci vogliamo provare?


TEMPERANZA
Nella trattazione delle virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ci rimane di dire qualcosa su quest'ultima, che potremmo definire “Quella virtù che ci insegna ad usufruire dei beni materiali e spirituali con discrezione ed entro i limiti voluti da Dio”. E da tale definizione si desume a volo che discorso delicato e difficile è mai questo in una società e in una cultura contrassegnate dall'impeto travolgente delle passioni più disordinate... Discorso difficile e perciò stesso più necessario ed urgente. E per rendere più concreto ed efficace questo argomento, potremmo suddividerlo in tre sottotitoli: la sobrietà, la castità e l'umiltà, a seconda appunto dei piaceri che la temperanza è chiamata a moderare.
LA SOBRIETA'. È una virtù morale che esercita la sua azione moderatrice in particolare verso i piaceri più connaturali all'uomo e alla donna di qualsiasi età, che sono quelli connessi all'uso del cibo e delle bevande, sopratutto inebrianti.
Piaceri che ci fanno facilmente sconfinare dai limiti imposti dalla ragione e dal vero bene dell'uomo. Questi sconfinamenti disordinati recano un danno non indifferente, specialmente per chi vuole progredire nella vita spirituale. Si pensi, ad esempio, alla devastazione fisica, morale e famigliare che può derivare dall'intemperanza nell'usare bevande alcoliche ed inebrianti. Persino molte azioni delittuose possono nascere dall'ubriachezza, come la cronaca nera quotidiana ci dimostra.
I disordini della gola nel bere e nel mangiare appesantiscono e danneggiano l'uomo (e la donna) non solo fisicamente, ma ancor più spiritualmente, in quanto producono il trionfo dell'elemento materiale su quello spirituale dell'uomo. Gesù quando vuole indicare una vita egoista ripiegata sui piaceri dei sensi ed insensibile ai bisogni altrui, la presenta nella figura del crapulone (parabola del ricco epulone che disprezza la fame e le piaghe del povero Lazzaro ai suoi piedi. E qui si vede come sono stretti i legami, i rapporti tra sobrietà e carità (amore al fratello). L'intemperante è così vivamente preoccupato di procurarsi e di non perdere il piacere della gola e garantirselo in ogni modo e con ogni mezzo da dimenticare quasi completamente il rapporto d'amore con Dio e con i fratelli bisognosi. Si va alla ricerca del ristorante raffinato e dispendioso e ci si dimentica (o si vuole dimenticare) che poco distante da noi ci sono fratelli che sarebbero felici di potere usufruire degli avanzi che noi lasciamo nel piatto per troppa sazietà. Si, è la parabola del ricco epulone che si ripete alla lettera....Ma stiamo attenti che puntualmente non si verifichino anche le conseguenze descritte da Gesù....
LA CASTITA'. E' quell'aspetto della temperanza che regola l'esercizio delle facoltà sessuali della persona umana secondo le norme della ragione e della fede cristiana con specifico riferimento alle diverse vocazioni e condizioni di vita, per cui si può parlare di una castità verginale e di una castità matrimoniale, notevolmente diverse nelle applicazioni pratiche, ma accomunate da uno stesso sforzo morale. Mascolinità e femminilità sono doni e vocazioni complementari, destinati a realizzarsi, ordinariamente, nella dedizione reciproca della sponsalità: la dimensione sessuale della persona è perciò un bene, che ha per fine l'amore umano.
Affinché mascolinità e femminilità, profondamente sconvolti dal peccato originale, non trasbordino dalla loro finalità provvidenziale, occorre che vengano educati ed espressi in maniera autenticamente umana e a servizio della vita nel contesto del matrimonio, per garantire la santità del quale, Gesù ha addirittura istituito un sacramento specifico. Se la persona non è padrona di sé, attraverso la virtù della castità, manca di quell’autocontrollo che la rende capace di donarsi solo nel contesto voluto e predisposto da Dio, che è quello del matrimonio monogamo ed indissolubile.
La castità è l’energia spirituale che sa attendere e che, nel matrimonio, libera l’amore dall’egoismo e dall’aggressività. La castità di due sposi è la padronanza di sé per il dono di sé, quindi virtù che custodisce e nutre l’amore. Nella misura in cui negli sposi s’indebolisce la castità, il loro amore diventa progressivamente egoistico, cioè soddisfazione disordinata di un desiderio di piacere e non più dono di sé. La castità è il coraggio di dire “no” all’amore falso (o in parte falso), per avere la forza di dire “si” all’amore vero, quello con l’A maiuscola.
La castità di due sposi è la decisione tenace e fedele di rifiutare l’uso di sé e dell’altro come “cosa” e di educare e celebrare il senso della persona, il rispetto dell’altro, la vocazione alla comunione nell’ordine e nell’armonia.
Un discorso delicato e difficile oggi questo, in questa violenta pressione della cultura materialistica contemporanea, ma che la Chiesa di Cristo non può tralasciare, nella fondata speranza di incontrare accoglienza in persone di retto e nobile sentire. E noi ci auguriamo, anzi siamo sicuri, che ce ne sono molte tra noi, ringraziando Dio.
A questo punto sarebbe doveroso un accenno anche alla verginità consacrata, cioè scelta per ragioni superiori di intimità con Dio e di dedizione totale a servizio dei fratelli, profumo delicato e divino che ha avvolto di sé tutti questi 2000 anni di storia ecclesiale, partendo dalla verginità purissima e feconda della Madre di Dio (è l’unico privilegio a cui Gesù non ha rinunciato: quello di avere una madre vergine!) per giungere a M. Teresa o alla suora, che, tra noi o in terra di missione, offre la sua verginità di cuore e di corpo a servizio dell’Amore. Chi può comprendere, comprenda, direbbe oggi Gesù.
Anzi è tanta la fecondità spirituale della verginità consacrata che la Chiesa la richiede come disposizione oblativa al dono totale di sé, nonostante le immancabili difficoltà in materia, ai suoi sacerdoti, almeno quelli di rito latino. Grande forza quella del celibato sacerdotale e per questo accanitamente contestata dai nemici della Chiesa, oggi più che mai. Ma la Chiesa non cede su questo punto, anche se non è, strettamente parlando, un’esigenza dogmatica unita all’esercizio del ministero sacerdotale, ma solo una ricchezza preziosa della sua tradizione spirituale.
Tutto questo discorso sulla temperanza nelle sue espressioni di sobrietà e castità esigerebbe come preliminare un allenamento della volontà che il linguaggio cristiano è solito indicare con i termini mortificazione o penitenza, entrambi molto ostici alla sensibilità del materialismo e edonismo contemporanei. Ma è evidente che è assai arduo mantenersi sobri e casti, data la forte ed irruente attrazione dei piaceri sensibili, senza tale allenamento alla mortificazione e alla penitenza. Del resto qualsiasi forma di agonismo sportivo implica un allenamento, spesso prolungato ed esigente. E la gioia del risultato o della vittoria raggiunta ripaga ad oltranza l’atleta dello sforzo di allenamento compiuto.
E’, dunque, indispensabile educare noi stessi e le persone affidate alle nostre cure, iniziando proprio dai nostri bambini mai contenti, a non assecondare ogni desiderio con la prassi dei piccoli fioretti volontari, tanto in auge in tempi di maggiore autenticità cristiana.
L’ UMILTA’. Per completare questo nostro discorso sulla temperanza, dovremmo fare un breve cenno anche alla virtù dell’umiltà, che modera l’impulso istintivo dell’uomo (dopo il peccato originale) all’affermazione esagerata e vanagloriosa di sé. L’umiltà, che in fondo è verità e retta conoscenza di sé, ci aiuta a stimarci per quello che veramente siamo e valiamo e quindi a cercare il nascondimento e perfino il disprezzo, ad esempio di Gesù volontariamente umiliato. Se esaminiamo con sincerità e chiarezza la nostra realtà personale, ci accorgeremo che ciò che vi è di buono in noi viene da Dio. «Che hai tu che non abbia ricevuto? » (1Cr 4,7).
Di veramente nostro, e soltanto nostro, c’è il peccato! “Ahimè, si domanda S. Francesco di Sales, forse che i muli cessano d’essere bestie rozze e maleodoranti per il fatto che vanno carichi di mobili preziosi e profumati di un principe?”.
L’umiltà è la chiave che apre i tesori della Grazia:«Dio resiste ai superbi, ma dona grazia agli umili». (1 Pt 5,5). Essa è il fondamento di tutte le virtù, che con lei divengono più perfette e si radicano più profondamente in noi. Essa è come il sale in cucina…
Comprendiamo, allora, perché S. Agostino dica: « Vuoi elevarti? Comincia con l’abbassarti». Pensi di costruire un edificio che tocchi il cielo? Pensa prima a porre le fondamenta. Tanto più alto vuol essere l’edificio, tanto più profonde dovranno essere le fondamenta.
A proposito vorrei, terminando, leggervi alcune righe su questo argomento di quel concretissimo e sapido autore che è S. Francesco di Sales (“Introduzione alla vita devota”):«Diciamo spesso di essere nulla, di essere la miseria in persona e la spazzatura del mondo, ma resteremmo ben male se qualcuno ci prendesse in parola e pubblicamente ci trattasse secondo quanto andiamo dicendo di noi stessi. Anzi, facciamo finta di fuggire di nasconderci solo perché ci corrano dietro e vengano a cercarci; ci diamo l’aria di volere essere gli ultimi, seduti all’ultimo posto della tavola, ma solo per passare con più onore ai primi posti».
Ah, com’è difficile essere veramente limpidi e puri di cuore agli occhi di Dio. 
Le Virtù 
Si è già passato in rassegna, nella loro natura e nei loro effetti negativi, i sette vizi capitali: orgoglio, invidia, ira, gola, lussuria, accidia, avarizia, ossia tutte le possibili piste di peccato che si sono aperte in noi dopo la ribellione dei nostri progenitori o peccato originale.
Ma la vita divina che ci è stata ridonata gratuitamente (e perciò la chiamiamo “Grazia”) nel giorno del Battesimo, tende, per sua natura, a svilupparsi, cioè è una realtà fortemente dinamica. Ed allora noi cercheremo ora di esaminare le varie piste positive da seguire nel nostro cammino verso l’unione con Dio, nella nostra crescita spirituale, così come si evince dalla Rivelazione e dalla riflessione teologica della Chiesa, cioè il cammino di quelle che noi chiamiamo Virtù. Un discorso quanto mai attuale ed urgente al giorno d’oggi, dove di tutto si parla tranne che di virtù e di santità.
Ed incominciamo con le virtù cardinali o morali, che sono quattro: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza

PRUDENZA
Di per sè la “prudenza” potrebbe essere definita la capacità che può avere l’uomo nello scegliere i mezzi più adatti a raggiungere gli scopi che si prefigge. E siccome gli scopi dell’uomo possono essere purtroppo anche cattivi, S. Paolo parla di una prudenza carnale, che prende consiglio dalle passioni disordinate e persegue fini peccaminosi, servendosi anche di mezzi malvagi. Più che prudenza, dovrebbe essere chiamata “astuzia” o sapienza diabolica, come la chiama S. Giacomo (3, 15).
Accanto alla prudenza carnale e peccaminosa, si dà anche una prudenza del tutto naturale. Noi parliamo per esempio di un uomo d’affari “prudente”, di uno statista, di un educatore, di un artista, ecc. prudenti. Tutti uomini abili nel perseguire interessi e scopi buoni, ma nell’ambito puramente naturale. Questa prudenza umana e naturale è molto importante e apprezzabile per la vita tanto individuale che sociale, ma non è la virtù soprannaturale e infusa di cui ci accingiamo a parlare, che mette in cima a tutto la la salvezza dell’anima e i beni soprannaturali, rispondendo ad un interrogativo di fondo:«A che cosa serve questo per l’eternità? Aiuta la salvezza dell’anima o la mette in pericolo? » 
Il cristiano prudente valuta ogni cosa da questo punto di vista. Gesù stesso ha dato, in forma di domanda, un criterio da adottare nel nostro agire: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? » (Mt 16, 26)
La virtù infusa della prudenza si ispira al Vangelo non solo riguardo al fine dell’agire, ma anche nella scelta dei mezzi necessari od utili per raggiungerlo. La prudenza cristiana costituisce la non facile soluzione ottimale di aspetti della vita evangelica che potrebbero sembrare opposti. Per esempio il sapere armonizzare l’indispensabile mitezza ed umiltà di cuore con la decisione e la fortezza, ugualmente necessarie nella lotta cristiana. Parimenti l’ubbidienza con il senso di responsabilità, o l’austerità della vita con la sapiente moderazione, o ancora il senso di giustizia con quello della comprensione e della misericordia.
E’ difficile, dicevamo, compiere quest’opera di armonizzazione, ma è indispensabile al cammino della santità. La prudenza è una compagna fedele durante tutto il cammino della perfezione cristiana. E non solo per quanto ci riguarda personalmente, ma anche per l’esercizio dell’apostolato, in cui, pur con tutta la fedeltà ai principi del Vangelo, bisogna sapere tener conto delle circostanze di vita, del grado di cultura, delle capacità di comprensione, dello stato d’animo e delle disposizioni di coloro ai quali si vuol far giungere la Parola del Signore. Altrimenti invece che del bene si compiono disastri. Del resto Gesù stesso usava questa prudente gradualità nel manifestare la Sua natura divina ed i segreti del Regno del Padre suo alle folle e agli stessi discepoli.
La prima esigenza della virtù della prudenza è, dunque, che non si agisce con precipitazione ed emotività. Quanta gente, infatti, si lascia guidare dalle impressioni e dagli stati d’animo del momento! Si entusiasmano o si impennano dinanzi a qualsiasi proposta, senza esaminarla e vagliarla con calma, serenità ed attenzione. E ciò si rivela particolarmente dannoso quando si hanno responsabilità di autorità o di educazione: un superiore, un genitore, un educatore emotivo ed imprudente, anche se ben intenzionato, può produrre facilmente danni irreparabili, creando attorno a sé un clima di tensione e reazioni rabbiose ed inconsulte. Le passioni disordinate, la sensualità, le simpatie ed antipatie, l’ira, l’invidia, l’ambizione ecc. sono le grandi nemiche della prudenza cristiana, perché si elevano come un nuvolone di polvere che offusca la vista. Quante volte, per esempio, in un impeto di collera, abbiamo detto una parola, abbiamo scritto una lettera, abbiamo preso una decisione della quale, tornata la calma, abbiamo probabilmente dovuto pentirci amaramente! E’, quindi, regola elementare di prudenza non prendere alcuna decisione importante, non mettere mano ad un affare di rilievo, non fare una riprensione, quando si è interiormente sconvolti da qualche passione. Lasciamo calmare le acque e si eviteranno così molte dannose imprudenze. Ciò, evidentemente, non vuol dire cadere nell’eccesso opposto di non sapere mai prendere una decisione. C’è una ponderazione esagerata che diventa blocco e indecisione patologica, mentre nella vita, e, ripetiamolo, soprattutto in certi posti di responsabilità, è necessario agire con una certa ponderata fermezza e tempestività. Pensate, per esempio, ad un chirurgo dinanzi ad un intervento rischioso, ma urgente. Se un cacciatore mirasse e poi mirasse ancora, senza decidersi a premere il grilletto, non avrebbe molte probabilità di fare una buona preda…. In fondo lo afferma anche la sapienza popolare nel famoso proverbio:”Chi non risica, non rosica!”
Quindi, nel processo di maturazione umana e cristiana, si deve giungere gradatamente ad una sana indipendenza di giudizio e di azione. Bisogna imparare a camminare coi propri piedi e senza bisogno di troppe stampelle, altrimenti siamo ancora nell’infantilismo, nell’immaturità. Ma anche qui, attenzione alle esagerazioni! Dice la Parola di Dio: «L’uomo assennato non trascura l’avvertimento degli altri» (Sir 32, 18). Soprattutto quando questi “altri” non sono i primi venuti, ma persone qualificate per saggezza, per ministero e per grazia. Ancora il Siracide ci ammonisce: «Uno tra mille sia il tuo consigliere» (Sir 6, 6). Il vecchio Tobia raccomandava a suo figlio: «Chiedi il parere ad ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio» (Tob 4, 18). Evidentemente è inutile domandare consigli se non si è interiormente disposti ad accettarli o, almeno, a prenderli in seria considerazione. Perché vi sono quelli che domandano consiglio solo per trovare conferma alla propria opinione e alla decisione già presa.
Qui sarebbe opportuno spendere qualche parola sulla salutare pratica della DIREZIONE SPIRITUALE, terreno privilegiato per il fiorire e il fruttificare della prudenza cristiana. La storia della Chiesa, anche recente, ricorda uomini di Dio particolarmente datati del dono del consiglio (che perfeziona la virtù della prudenza) e ricchi di una intuizione soprannaturale che permetteva loro di indicare con certezza ciò che era più conveniente fare in casi anche molto delicati e difficili. E’ impossibile calcolare il bene operato da tali direttori o consiglieri spirituali con chi si rivolgeva a loro e la grazia di incontrarli sul nostro cammino. Ma anche qui l’ottimo potrebbe essere nemico del bene, come si dice, perché non è sempre pensabile di trovare a portata di mano un San Padre Pio o un S. Leopoldo Mandic da Padova e sarà allora saggio e prudente sapersi avvalere di qualche buon sacerdote, dotato di pietà e di saggezza.
Potremmo anche dire che normalmente una confessione sacramentale celebrata con calma potrebbe anche essere un’ottima occasione per una qualche forma di direzione spirituale…. Anzi la direzione spirituale richiesta ed esercitata nella Grazia specifica del Sacramento della Riconciliazione dovrebbe avere una speciale efficacia, come l’esperienza conferma. Tra l’altro una buona direzione spirituale dovrebbe aiutare ad evitare un’altra grande nemica della prudenza e, in genere, della vita cristiana: l’INCOSTANZA. 
E’ incostante quell’uomo che cambia da un momento all’altro e senza motivi profondi il suo giudizio, l’orientamento della sua volontà, il suo modo di agire. Oggi è tutto fuoco per un’idea, domani la condanna e la combatte. Oggi è entusiasta per un progetto, domani l’abbandona. Oggi è sicuro della propria vocazione, domani è dubbioso e vacillante. L’incostante muta spesso (o addirittura abbandona) le sue pratiche di pietà, i suoi impegni parrocchiali, il suo confessore. Il Signore non può prendere saldamente per mano l’incostante e condurlo alla santità: gli sfugge continuamente, simile ad un bambino che sfugge di mano alla mamma tutte le volte che vede una farfalla… Ecco perché Gesù afferma: «Nessuno, che ha messo mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62).
Una tendenza all’incostanza è propria di tutti. Il grado dipende in gran parte dall’emotività e dal temperamento. Ecco perché l’ubbidienza al direttore spirituale educa alla costanza e quindi rende possibile il progresso spirituale.
A formare un’anima costante e prudente vale, poi, moltissimo la preghiera, soprattutto l’orazione mentale, pratica molto diffusa, nei decenni scorsi, specialmente tra i membri, anche giovanissimi, dell’Azione Cattolica e di altre associazioni laicali, ma oggi necessitante di un rilancio su larga scala. Quanto più le motivazioni naturali e soprannaturali, acquisite nella preghiera, diventano sangue del nostro sangue e norme ispiratrici della propria vita, tanto più andrà diminuendo e sparendo ogni vacillamento e incostanza. E’ l’orazione mentale che radica sempre più il nostro pensiero e la nostra volontà nella luce e nell’amore di Dio, cioè in Dio stesso.
Concludiamo. Troppo spesso ci lasciamo condizionare dal nostro modo di pensare e di comportarci dal e dalle chiacchiere degli altri. Pensiamo di essere liberi, ma in realtà siamo pilotati dall’opinione pubblica prevalente. Dobbiamo, certamente, tenere prudentemente conto del modo di vedere degli altri, quando è saggio e corretto, ma non bisogna dimenticare che è impossibile accontentare tutti e che ciò che più conta è accontentare Dio. Nel nostro modo di pensare, di parlare, di agire dobbiamo essere, come ci dice Gesù, “semplici come colombe”, cioè lineari e schietti nella nostra personalità evangelica, così come “astuti come serpenti”, cioè prudenti e perspicaci nell’individuare ed evitare tutto ciò che può intaccare e menomare la nostra testimonianza cristiana, che mai come oggi, in una società ed in una cultura che sta diventando pagana, deve essere chiara, forte e senza compromessi.   
GIUSTIZIA
Dopo aver trattato della prudenza cristiana, diciamo qualcosa della seconda virtù morale, la giustizia.
Nel linguaggio biblico la parola “giustizia” si identifica spesso con “santità” – <<Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati>> (Mt. 5,6)
Noi, invece, diremo qualcosa di questa virtù in un significato più ristretto, indicandola come quella virtù che inclina la volontà a rendere costantemente agli altri tutto ciò che è loro dovuto. E questi “altri” possono essere Dio stesso (e allora la virtù di giustizia si chiama virtù di religione), la Chiesa, la societa’ civile, il nostro prossimo (secondo il legame più o meno stretto che abbiamo con lui).
Se si perdesse il senso della giustizia nelle relazioni umane a vari livelli, la vita della società cadrebbe nel caos e la società stessa si trasformerebbe in una giungla di bestie feroci, dove ci si azzanna a vicenda e dove domina il “diritto del più forte”. Cosa che, purtroppo, la storia, anche recente o contemporanea, molto frequentemente dimostra.
E diciamo pure che la giustizia viene ancor prima della carità. Infatti, come anche il Concilio Vaticano II ricorda, se non si adempiono prima gli obblighi di giustizia, è farisaico parlare di carità. Troppo spesso noi siamo soliti definire doni caritativi quelli che sono doveri di stretta giustizia verso i fratelli bisognosi di casa nostra e del mondo intero…
Ma allora, per meglio capirci, sarà bene distinguere una triplice giustizia: la giustizia legale, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa.
La GIUSTIZIA LEGALE riguarda i doveri che gli uomini hanno nei confronti del bene comune e della società civile e religiosa. Noi tutti siamo portati ad un individualismo egoista e arrivista, per cui siamo continuamente tentati di concludere: …purché questa cosa serva al mio interesse, alla mia comodità, al mio piacere, del resto non m’importa, anche se dovesse danneggiare gli altri…
E’ la distruzione della società, attraverso evasioni e violenze di ogni tipo, di cui, per esempio, la mentalità “mafiosa” e delinquenziale è classico esempio.
Per cui un concorso lo si fa vincere non a chi se lo merita per intelligenza e preparazione, ma a chi è sostenuto da interessi e spinte politiche. Ma qui forse andiamo già a sfociare nella “giustizia distributiva”.
Entra nella giustizia legale l’obbligo morale di pagare le tasse allo Stato, almeno quando non divengono evidentemente esorbitanti e di osservare le sue leggi, almeno fin quando non contrastano con la legge superiore di Dio (come nel caso del divorzio, dell’aborto e, Dio non voglia, in futuro anche dell’eutanasia).
Rientra nella giustizia legale anche la cura del bene pubblico, il rispetto dell’ambiente (ecologia) e dei servizi pubblici. Sappiamo come in altre nazioni, dove si e’ più educati a queste virtù civili, anche una piccola infrazione al bene pubblico, come gettare carta per terra nei luoghi pubblici, può essere giustamente penalizzata dalla legge.
Noi italiani, forse, siamo portati a ridere ed a infischiarcene di queste norme che regolano la vita sociale, ma non è bene, perché tutto ciò che ha valore umano ha anche valore cristiano. Insomma, per usare un’espressione evangelica, si tratta di “dare a Cesare quello che è di Cesare”.
Quanto sarebbe utile e bello che questo principio fondamentale regolasse l’impegno civico e politico di tutti! Come sarebbe bello che tutti fossimo portati a sacrificare noi stessi, le nostre soddisfazioni, il nostro tempo, le nostre cose, in vista del bene comune! Ma qui mi accorgo che la giustizia si eleverebbe a vera e propria carità (non nel senso di elemosina, ma di amore oblativo), la quale non è possibile – sia detto chiaramente anche questo – senza un riferimento più o meno diretto a Dio ed un aiuto della Sua grazia.
Vorrei anche ricordare, per noi credenti e cattolici convinti, che questa giustizia legale porta a promuovere il bene comune non solo nell’ambito della società civile, ma anche nella società religiosa, cioè della Chiesa, di cui il Battesimo ci ha fatti membri coscienti e responsabili.
Sovvenire alle necessità della Chiesa – per es. con la destinazione dell’8 x 1000 nel pagamento delle tasse - è anche un obbligo morale di giustizia per una coscienza retta e sensibile. Queste semplicissime e basilari osservazioni ci fanno capire quanto ordine, quanta armonia, quanta bellezza immetterebbe nella vita sociale una coscienza chiaramente cristiana, cioè una vita che tenda al servizio, al dono e non all’egoismo. Ma qui, lo ripeto, si sale un gradino e dalla giustizia si sale alla carità …
Diciamo, dunque, qualcosa sulla GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA, che è quella che inclina a dare a ciascuno il suo, non solo secondo una mentalità “contrattuale” del dare ed avere, ma tenendo conto del giusto bisogno dell’altro. Forse è qui dove la dottrina sociale cristiana si differenzia enormemente da una dottrina “capitalista” od anche al polo opposto, “collettivistica”, in cui chi detiene il potere politico od economico dice all’individuo : “tu mi rendi tanto, io ti retribuisco tanto e non di più”. Una dottrina squallida (e perciò ingiusta) che guarda alle cose e non alla persona, valore fondamentale nella visione cristiana della vita. Pensiamo agli inizi della società industriale, quando donne e bambini erano costretti ad un lavoro massacrante con orari e condizioni ambientali disumani, con uno stipendio, a dir poco, da fame. Qualcosa che fa venir in mente le condizioni di schiavitù del popolo ebraico in Egitto al tempo dei faraoni… E i faraoni e gli schiavi non sono purtroppo solo un ricordo dei tempi pre-cristiani, ma sono giunti, qua e là nel mondo, fino ai nostri giorni. E se la storia ci obbliga a riconoscere che talvolta anche qualche cristiano si è messo dalla parte dei faraoni, è giusto ricordare come il magistero della Chiesa si sia sempre coraggiosamente pronunciato a sostegno della giustizia sociale, soprattutto nella società cosiddetta industriale, dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII agli ultimi documenti ed interventi a raggio mondiale di Papa Giovanni Paolo II.
E l’azione della Chiesa non si é espressa solo in documenti scritti, ma in un’azione sociale che ha del prodigioso in tutti i settori del bisogno umano, dall’infanzia alla vecchiaia, dall’istruzione popolare all’assistenza medica, nei nostri paesi cosiddetti civili come nelle zone più depresse del terzo mondo, da Vincenzo De’ Paoli a Madre Teresa di Calcutta.
Solo la disonestà intellettuale potrebbe negare questa realtà così evidente. E se l’azione della Chiesa non è stata, e non è tuttora, sempre sufficiente a colmare e ad eliminare le ingiustizie del mondo, non sarà forse perché anch’io, così pronto nel criticare, non mi sono impegnato a vivere le conseguenze di giustizia e di amore del mio battesimo?
Ma facciamo qualche accenno anche alla terza forma di GIUSTIZIA che e’ quella COMMUTATIVA, ossia quella che regola diritti e doveri degli uomini tra loro, facendo rispettare tutti i diritti di ognuno: il diritto alla vita (in primo luogo!), il diritto alla proprietà, il diritto alla libertà, il diritto all’onore e alla reputazione.
E qui, evidentemente, si evidenza una lunga lista di peccati, che richiederebbero ciascuno una trattazione specifica: il furto, la frode, l’usura (una della più gravi, crudeli e disastrose forme di ingiustizia; più grave certamente del furto, perché esercitata metodicamente e freddamente e chissà quanto disgustosa e punibile agli occhi di Dio!), l’omicidio, l’aborto, il sequestro, le false accuse e testimonianze, le ingiurie, gli affronti, le calunnie, le diffamazioni, le insinuazioni, le derisioni… e chi più ne ha più ne metta.
Sarebbe opportuno soffermarsi su ciascuna di queste “ingiustizie”, di cui probabilmente nessuno di noi è perfettamente esente, ma lo faremo in un altra occasione.
Mi preme, invece, in questo complesso argomento, di riprendere un’affermazione fatta all’inizio di questa trattazione: sì bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e ai fratelli quello che è dei fratelli, ma anche a “Dio quello che è di Dio”. E forse, anzi senza forse, la prima giusta relazione dobbiamo averla proprio con Lui. Affermazione della massima importanza in una società e in una cultura laicista ed agnostica, nella società della “morte di Dio”. No Dio non è morto: quella che sta morendo, senza di Lui è la nostra società secolaristica e noi in essa… Quindi si connette con la giustizia la cosiddetta VIRTU’ DI RELIGIONE, che ci fa rendere a Dio, secondo le nostre minime possibilità, il culto che Gli è dovuto, allo scopo di riconoscere la Sua infinita grandezza e la Sua infinita bontà,
Il primo e più importante atto di religione è l’adorazione, con la quale tutto il nostro essere si prostra, con umiltà ed amore, dinanzi a Colui che è la fonte di ogni bene. Un’espressione liturgica e tradizionale di tale atteggiamento di adorazione è per esempio, la genuflessione lenta e profonda che dovremmo fare, entrando in Chiesa, dinanzi alla presenza reale di Gesù nell’Eucarestia e che spesso deformiamo in un rapido e insignificante sgambetto, piuttosto ridicolo che non religioso.
Sintomatico che lo spirito secolarista e dissacrante, oggi spesso introdottosi anche all’interno della Chiesa, tende ad eliminare questi segni di devozione esterna, proprio perché ha già eliminato la devozione interna alla mente e al cuore.
Non sarà inutile ricordare che il più sublime e completo atto di adorazione nella Nuova Alleanza con Dio è il sacrificio di Cristo sulla Croce, rinnovato misticamente, ma realmente, per mandato Suo agli Apostoli nell’ultima cena, in ogni celebrazione eucaristica, per cui la S. Messa, specialmente quella domenicale, incorniciata e resa possibile dal riposo festivo ed allietata dalla comunione fraterna dei fedeli, può essere considerata anche come un atto di doverosa giustizia verso Dio.
Ma in una visione più allargata e globale della vita cristiana, tutti gli atti di culto privati e pubblici, anzi tutte le giuste azioni dell’uomo, persino il mangiare e il bere, - insegna l’Apostolo Paolo – possono essere considerate, secondo l’espressione di San Pietro (1 Pt. 2, 5) “sacrifici spirituali graditi a Dio”. E allora, come conseguenza logica, la più grande ingiustizia nei confronti di Dio, dei fratelli e di noi stessi, è vivere senza Grazia di Dio, misconoscendo e vanificando il suo armonioso disegno universale di salvezza. Tragica possibilità del nostro libero arbitrio! Vale la pena farci su un pensierino…
LA FEDE
Abbiamo parlato delle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, che si chiamano appunto “cardinali” perché sono “cardini”, fondamento di tutti gli altri atteggiamenti virtuosi. Ma il nostro discorso necessita di andare più a fondo, perché la nostra vita spirituale, per essere veramente tale, deve regolare in modo giusto e conveniente innanzitutto il nostro rapporto con Dio e questo è il compito delle virtù teologali (= che si riferiscono a Dio) della fede, della speranza e della carità.
Ed incominciamo allora con la fede.
Piuttosto che dare una definizione strettamente teorica e dottrinale della virtù della fede, cercherò di esprimermi con termini semplici e con immagini tratte dalla vita quotidiana, rischiando naturalmente qualche approssimazione ed imprecisione.
A cosa posso paragonare la fede? Ad una specie di “radar” che riesce a raggiungere e percepire delle realtà che superano e sfuggono alla verifica dei nostri sensi, tanto limitati (da qui si capisce subito che il più grosso ostacolo alla fede è forse la nostra presunzione razionalistica e il nostro orgoglio, che non ammette realtà che trascendono le capacità della nostra mente ed esperienza umana. Un po’ come S. Tommaso dinanzi alla prospettiva della risurrezione di Gesù…)
Ma un radar non agisce da solo: ha bisogno di qualcuno che lo voglia e lo sappia maneggiare. Così la fede è un atto dell’intelletto, perché si tratta di conoscere delle verità, ma non essendo queste verità intrinsecamente evidenti, la nostra adesione di fede non può farsi senza l’influsso della volontà. Ma non basta. Trattandosi di verità soprannaturali deve intervenire anche la Grazia (o aiuto di Dio) per illuminare l’intelletto e aiutare la volontà nel suo assenso. La fede è, dunque, dono di Dio, ma richiede l’impegno dell’intelletto e della volontà umana. Diciamo subito anche che la fede, per essere completa e salvifica, non può limitarsi ad essere un’adesione intellettuale, ma deve essere abbandono fiducioso e confidente in Dio, cioè deve essere unita, quasi impastata, con le altre due virtù teologali della speranza e della carità.
Mi pare che in tal modo sia superfluo sottolineare quanto la fede sia essenziale ad un rapporto vitale con Dio, che senza di lei manca di fondamento.
Per questo il Concilio di Trento afferma che la fede “è il principio, il fondamento, la radice della nostra giustificazione”. Insomma, senza fede non è possibile stabilire un rapporto di salvezza con Dio.
Per focalizzare meglio il nostro discorso è forse utile spazzare il nostro cammino da false o incomplete immagini della fede:
 La fede non è puro sentimento, emotività superficiale e passeggera. Un movimento di commozione spirituale determinato da un canto o da una situazione particolare, non può dirsi un atto di fede, anche se può esserne accidentalmente inizio, una spinta…
 Al limite opposto non si può dire fede, in senso salvifico e completo, l’assenso ad una verità, per esempio l’accettazione puramente intellettuale dell’esistenza di Dio. Scrive l’Apostolo Giacomo: “Tu ti limiti a credere che c’è un solo Dio? Ma anche i demoni lo credono e tremano” (Giac. 2,19).
 Fede vera e vitale non è neppure l’adempimento formalistico e macchinale (per abitudine?) di riti o di leggi morali.
 Fede non è folclore. E qui dobbiamo far bene attenzione noi che viviamo in zone in cui sono profondamente radicate tradizioni ed usanze, che hanno avuto certamente un’origine religiosa e tuttora mantengono aspetti religiosi (come la festa di un santo, una processione che parte da una chiesa ecc. ecc.), ma che, per ignoranza o fanatismo, si sono andate gradualmente svuotando di valori e sono rimaste a livello di gare sportive o di spettacoli popolari o poco più. L’aver partecipato ad una processione sgranocchiando ceci e semi di zucca abbrustoliti, chiacchierando di tutto e su tutti o addirittura dando sguardi maliziosi a destra e a sinistra; il portare una bara facendo sfoggio dei propri muscoli e forse anche lasciando andare qualche bestemmia (cose purtroppo udite con le mie orecchie!) son cose che non manifestano una fede genuina, ma piuttosto una voglia di folclore, di festa paesana.
 Fede non è superstizione, come la “catena di S. Antonio” o di P. Pio, o di S. Rita consistenti nel copiare una preghiera a detti santi un certo numero di volte ed inviarla ad altrettante persone che a loro volta…., o cose simili. Con la promessa di grazie particolari facendolo o di disgrazie e punizioni se si è inadempienti. Fede questa? No, stupida superstizione molto atta a discreditare la vera religione presso le persone intelligenti (se vi capitasse qualcuna di queste missive farete molto bene a stracciarle senza scrupolo e bloccare queste sciocchezze, sotto le quali potrebbe anche nascondersi qualche abile manovra commerciale, come la vendita di lumini ecc.).
La lista delle falsificazioni della fede potrebbe probabilmente continuare a lungo, ma a noi più che denunciare ciò che fede non è, interessa definire, invece, ciò che è la vera fede. 
Lo faremo sempre con esempi pratici più che con definizioni teoriche. E con tanto più calore quanto più ci sembra di vivere in un periodo di fede debole se non proprio di eclissi della fede.
E la Parola di Dio non cambia, per cui, come leggiamo in Marco 16,16 “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”.
In riferimento al suo sviluppo in ciascuno di noi, potremmo anche paragonare la fede ad un seme divino, immesso (seminato) in noi, insieme a quello della speranza e della carità, al momento del Battesimo (di qui l’importanza del Battesimo anche ai bambini, non solo per cancellare in loro il peccato originale e renderli figli di Dio, ma per introdurli gradualmente in un rapporto intimo e personale con Lui).
E’ chiaro che ogni seme per germogliare e svilupparsi ha bisogno di trovare un terreno adatto (il clima di fede di una famiglia cristiana!), di essere protetto, coltivato, nutrito. Ma come in pratica?
 Con la preghiera assidua (soprattutto quella di ascolto…)
 Con la grazia dei sacramenti. Chi trascura la pratica liturgica e sacramentale con il pretesto di mantenere la fede nel cuore anche senza di essa, si potrebbe paragonare ad uno che pretendesse mantenere in vita una pianticella, magari ancora tenera (gli adolescenti che non vanno più in chiesa!) senza bagnarla mai. Potrà durare un po’, ma poi s’infiacchirà ed incomincerà a seccare. Certamente non porterà molto frutto.
 Importante anche, per lo sviluppo della fede, la purezza dei pensieri e dei costumi, secondo la parola di Gesù: “Beati i puri di cuore, perché…”. Certe crisi di fede adolescenziali o giovanili hanno qui un motivo molto più frequente e realistico che non altre ragioni teoriche…
 Determinante poi per la conservazione e lo sviluppo della fede soprattutto nelle nuove generazioni l’esempio reciproco. L’ambiente – soprattutto quello familiare – influisce moltissimo… Persino persone notoriamente non religiose, non possono non ricordare la fede semplice ma profonda dei propri genitori e tale commozione è indice di un segreto richiamo alle proprie radici, di cui spesso lo Spirito Santo si serve per richiamare un’anima e salvarla… E quello che si dice per la famiglia vale anche per l’ambiente parrocchiale, sociale, scolare in cui si è passati. Di qui l’urgenza di ricreare nei nostri paesi ambienti vivi di fede e di santità, che siano come fecondi vivai di nuove generazioni veramente cristiane…
 Un ultimo accenno, riguardo a questo tema dello sviluppo della fede, non possiamo omettere l’importanza dell’istruzione religiosa. L’ignoranza religiosa non è amica della fede. La non conoscenza dei termini della fede o, forse più ancora, le mezze conoscenze in persone presuntuose, produce una nebulosità mentale dannosissima e paralizzante del nostro rapporto di fede e di amore con Dio. “Catechismo della Chiesa Cattolica”.
Come vedete, ce n’è per tutti. Se il patrimonio inapprezzabile della nostra fede cattolica va deteriorandosi progressivamente, fino al punto di far definire la nostra “un’epoca post-cristiana” o “della morte di Dio”, questo è certamente anche colpa nostra perché non abbiamo coltivato in noi una fede contagiosa ed irradiante e non ci siamo sufficientemente impegnati a propagarla.
E qui si apre il discorso, tanto caro a Giovanni Paolo II, della “nuova evangelizzazione”. 
La fede, come tutti i fenomeni divini, è una realtà dinamica. Di natura sua tende ad espandersi, comunicarsi, un po’ come il fuoco che, divampando, tende a diventare incendio; altrimenti si esaurisce e si estingue. Se pretendiamo tener la nostra fede nascosta nel nostro intimo (“Io mi faccio i fatti miei; degli altri non mi interessa…”), finiamo col soffocarla. Anche perché Dio ha voluto la comunità dei credenti come una comunione universale (Ecclesia catholica) e tutto ciò che non si apre a questa universalità voluta da Gesù (“Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” Mt 28, 19-20) non è autenticamente cristiano. 
In molti di noi, che pur ci riteniamo cristiani, c’è dunque una grande conversione da operare: far passare la nostra fede da un fenomeno unicamente personale (è fuori dubbio che la fede stabilisca un rapporto personale con Dio), ad un’ardente passione, ad un bruciante desiderio di comunicare agli altri i suoi tesori. 
Sarebbe anche il modo di superare la debolezza e l’anemia della nostra fede stessa, perché è donando che si riceve. Una comunità ecclesiale ripiegata su se stessa e priva di slancio missionario, è una comunità moribonda, se non già morta… 
Si, ho l’impressione che la fede (cattolica) in Europa stia languendo soprattutto per mancanza di spirito missionario: sacerdoti burocrati ed “impiegati” di Chiesa, battezzati perbenisti ed individualisti, ma non evangelizzatori e diffusori del Regno di Dio… 
Prova ne sia che confessando, mentre sento spesso gente che si accusa di non essere andata a Messa la domenica (e fa bene ad accusarsene!) e persino di aver trascurato la recita del Rosario, non sento mai, o quasi mai, gente che si accusa di aver trascurato occasioni per far apostolato, per annunciare Cristo ai fratelli… i cosiddetti peccati di omissione.
In genere due sono i pretesti che ci bloccano in questo nostro dovere missionario esigito dal nostro battesimo ed ulteriormente sottolineato dalla cresima: 1) Ci sentiamo incapaci a trasmettere la fede, a parlare agli altri di Dio… 2) Abbiamo paura dei rischi connessi nel prendere posizioni apertamente cristiane dinanzi a persone o in ambienti agnostici (oggi molto diffusi), se non altro del rischio di essere beffati e presi in giro come bigotti o baciapile…
Riguardo alla prima difficoltà, basterebbe ricordare che l’evangelizzazione (“fides ex auditu”, afferma Paolo) avviene a diversi livelli ed attraverso diversi canali. Non tutti certamente possiamo pretendere di avere la preparazione teologica dei grandi evangelizzatori e missionari alla S. Paolo, ma tutti possiamo dire una buona parola “ricca di fede” vissuta… Le nostre buone nonne… 
E lo Spirito Santo si serve anche di questi minuscoli semi per fare germogliare la fede nel cuore dei nostri fratelli… 
E poi ancora ricordiamo che anche i nostri atteggiamenti parlano: ci sono delle umili suore d’ospedale che hanno convertito più cuori induriti e lontani con il loro delicato servizio e il loro sorriso, che non forse grandi e famosi predicatori. 
Sì, tutti possiamo e dobbiamo predicare con l’esempio di una vita veramente evangelica, tutti dobbiamo essere Vangelo vivente dinanzi ad un mondo che non crede più, e non crede più soprattutto alle parole, perché ne sente troppe; ma si lascia convincere e commuovere dinanzi all’esempio di una vita intessuta di valori evangelici. 
E’ per questo che nella lettera pastorale “Novo Millennio Ineunte” il Papa Giovanni Paolo II dice che bisogna partire per la nuova evangelizzazione del mondo contemporaneo incominciando dalla santità…
Riguardo alla seconda difficoltà, cioè la paura di piccoli o grandi rischi cui si potrebbe incorrere nella testimonianza aperta della nostra fede, si potrebbe ricordare che Gesù stesso non ha esitato ad affrontare, fino alla morte in croce, l’avversione e l’odio della classe ebraica dirigente, e dopo di Lui tutti gli Apostoli (tranne forse Giovanni) hanno bevuto lo stesso calice del martirio; anzi che i primi tre secoli del cristianesimo (fino alla pace di Costantino) sono stati immersi in un fiume di sangue di centinaia di migliaia di martiri di tutti i sessi, condizioni di vita ed età, non esclusi i bambini. E la prova del martirio, con più o meno intensità, ha sempre accompagnato questi duemila anni di storia della Chiesa, non escluso il testè trascorso secolo XX, che è stato uno di quelli più irrorati di sangue cristiano, se si tiene conto dei milioni di persone uccise in odio alla fede cristiana, soprattutto cattolica, nelle immense regioni sottoposte al comunismo ateo, o all’integralismo mussulmano (vedi anche oggi il genocidio dei cristiani nel Sudan o in alcune zone dell’Asia come l’Indonesia). Come potremmo dimenticare l’eroismo di tanti nostri fratelli, vivendo un cristianesimo pavido, camuffato, egoista? Non ha detto Gesù che chi si sarebbe vergognato di Lui davanti agli uomini, lui stesso si sarebbe vergognato di loro dinanzi al Padre suo?     
Abbiamo già iniziato a parlare della virtù teologale della fede, che, essendo (come la definisce il Concilio di Trento) “il principio, il fondamento, la radice” del nostro rapporto con Dio e, quindi, della nostra salvezza (=giustificazione) e della nostra santificazione, fondamento di tutto le virtù cristiane, richiederebbe un discorso senza fine. Ma noi non vogliamo fare una trattazione esauriente e completa di argomenti di teologia cattolica, ma ben più modestamente dire qualcosa in stile semplice e comprensibile a tutti, per alimentare un pochino la nostra vita cristiana, oggi purtroppo notevolmente denutrita.
Per esempio, vorrei accennarvi qualcosa su quello che siamo soliti chiamare Spirito di Fede, ossia l’abitudine (acquisita, e dunque virtù…) a guardare e giudicare tutto secondo i principi di fede: cose, persone, eventi. Un modo di pensare e giudicare che va oltre le apparenze immediate e si riporta alle parole e agli esempi di Gesù (un Gesù, certo, ardentemente amato – ecco perché la virtù teologale della fede non può in pratica, ma solo concettualmente, essere separata dalle altre due virtù teologali della speranza e della carità…), conosciuto e ricercato nella Sua parola e nei Suoi esempi; un Gesù divenuto punto di riferimento costante e centro dei nostri pensieri ed aspirazioni; un Gesù incontrato continuamente nella preghiera, soprattutto nella preghiera di ascolto). Facciamo un esempio pratico: nel cammino della vita ci incontriamo in momenti difficili, in difficoltà molto dolorose, in prove che non ci saremmo aspettati (dal campo fisico – la morte di persone care – a quello affettivo e persino spirituale, per non dire quello economico…). Chi di noi può ritenersi totalmente esente da simili prove? Ma come si reagisce a tali difficoltà? L’uomo di mentalità materialista e pagana (anche se va in chiesa) si ribella, si dispera, si deprime e può giungere persino all’orribile stupidità della bestemmia (cioè sputare in faccia a Dio) o a dichiarare di aver perso la fede (ma ce l’aveva?). L’uomo di fede, il vero cristiano, invece, si rapporta immediatamente a Dio e al Suo amore paterno e fa questo semplicissimo ragionamento: se Dio, che mi ama come un padre (e di questo non dubito minimamente), ha permesso questa prova, ci sarà certamente un bene per me e per altri, che forse mi sfugge, ma che non devo lasciar passare invano. Anzi, in questi casi, il pensiero dell’uomo di fede corre spontaneamente al Fratello ed Amico Divino, Gesù, l’Uomo dei dolori e si sente da Lui interpellato, come se Gesù gli chiedesse: “Non vuoi aiutarmi a portare la croce per la salvezza del mondo?”. Ed allora non ribellione e rifiuto – neppure momentanei – ma accettazione amorosa, l’abbraccio alla croce (“se uno vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”). Certo, la natura geme (“se è possibile, passi da me questo calice...”), ma la forza della fede giunge al “sì” senza riserve. Si compie allora uno dei miracoli più evidenti della vita autenticamente cristiana: la gioia profonda ed indistruttibile pur nella sofferenza… Maria……padre Pio….. S. Paolo (“sovrabbondo di gioia nelle mie afflizioni…”).
Non è masochismo! E’ fede congiunta, come spesso abbiamo ripetuto, alla speranza ed all’amore. E quanta luce per chi vive nello spirito di fede! Mentre per gli increduli gli eventi della vita sono spesso oscuri e deprimenti, l’orizzonte dell’uomo di fede è sempre luminoso e si può ben dire che per lui la vita terrena, anche se prova dolorosa (anzi, soprattutto se prova dolorosa), è anticipazione del gaudio della Gerusalemme Celeste.
La conclusione pratica, allora, quale dovrebbe essere? Che chi vuol fare un vero cammino cristiano non può limitarsi ad una fede teorica, cioè a non negare le verità rivelate, ma deve vivere una vita di fede, come scrive S. Paolo ai Romani: “Il giusto vivrà mediante la fede” (1,17). S. Tommaso d’Aquino, esprimendosi con la sua nitida chiarezza, dice “L’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà enunciata”, trasfondendola nella propria vita.
Ciò non toglie che l’enunciazione della fede sia cosa estremamente importante e delicata. Fin dalle sue origini apostoliche, la Chiesa, che è “colonna e sostegno della verità” (1 Tim. 3,15) conserva gelosamente il deposito della fede ricevuto da Cristo e dagli Apostoli e contenuto nella Parola di Dio scritta nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e nella Tradizione (parimenti apostolica) trasmettendolo di generazione in generazione con scrupolosa fedeltà. S. Ireneo di Lione, testimone di questa fede, dichiara: “In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino all’estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede…, conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un’unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una stessa anima e un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca” (Adversus Haereses). 
Lo stesso prosegue: “Infatti, se le lingue del mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (= in Gallia), né quelle dell’Oriente, dell’Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo… Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza” (Ibid.). “Questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, la conserviamo con cura, perché, sotto l’azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso (il magistero?), continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” (Ibid.).
Credere, dunque, è anche un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede (personale). La Chiesa è la madre di tutti i credenti e per questo S. Cipriano di Cartagine (un altro grande Padre dei primi secoli cristiani) afferma categoricamente: “Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre”. 
Per questo, nel rituale del Battesimo, il ministro chiede al battezzando o al suo padrino o madrina: “Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?” e la risposta è: “La fede”. “Che cosa ti dona la fede?” “La vita eterna”.
Il prezioso deposito della fede è, dunque, affidato alla Chiesa, che lo trasmette e lo difende con l’assistenza dello Spirito Santo. E’ un deposito definitivo, non passerà mai, né potrà essere aumentato o modificato da altre “rivelazioni”, né pubbliche, né “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall’Autorità della Chiesa (per esempio, le rivelazioni del S. Cuore a S. Margherita M. Alocoque a Paray lo Monial). Esse non appartengono tuttavia al deposito della fede. Il loro ruolo non è quello di “migliorare” o di “completare” la rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica (vedi il Giansenismo al tempo di S. Margherita M. Alocoque). 
La fede cristiana non può accettare “rivelazioni” che pretendono di superare o correggere la Rivelazione (con la R maiuscola!) di cui Cristo è il compimento definitivo, com’è il caso di alcune recenti sette che si fondano su tali “rivelazioni”. Dio ha detto tutto nel Suo Verbo, che è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre. Perciò il dottore mistico San Giovanni della Croce scrive, nel suo libro “Salita al Monte Carmelo”: “Chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità”. Utilissimo avvertimento per un certo prurito misticheggiante oggi abbastanza di moda…
Ciò non toglie che, grazie all’assistenza dello Spirito Santo, l’intelligenza, la comprensione, l’esplicitazione dell’immutabile deposito della fede possa crescere ed approfondirsi nella Chiesa. E’ il cosiddetto “sviluppo dogmatico”, che permette al Magistero della Chiesa, per il bene della nostra vita spirituale, di definire come dogma di fede (cioè da accettarsi con irrevocabile adesione di fede) verità contenute nella Rivelazione (cioè nella S. Scrittura e nella Tradizione Apostolica), oppure verità che a quelle sono necessariamente collegate. E’ stato, per esempio, il caso dei dogmi dell’Immacolata Concezione di Maria (1854), dell’infallibilità del Papa nelle solenni definizioni in campo di fede o di morale (1870), dell’Assunzione della Vergine (1950).
Il Concilio Vaticano II (Costituzione “Dei Verbum”, 10) così afferma: “E’ chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”. Sta qui una delle principali, se non la principale, differenza tra cattolici e protestanti.
Sarà ancora utile ricordare che, nel corso dei secoli, la Chiesa ha sintetizzato l’enunciazione delle principali verità di fede in alcune formulazioni, le principali delle quali sono due: il Simbolo (= riassunto) degli Apostoli e il Credo - un po’ più diffuso - di Nicea – Costantinopoli, che proclamiamo nella liturgia eucaristica ogni domenica o solennità.
Penso che, nonostante che le nostre non pretendono di essere più che “briciole”, dovremmo ritornare sull’argomento della fede, per esempio per riflettere sul rapporto spesso esasperato tra ragione e fede. Ma, per ora, concludiamo dicendo che qualsiasi menomazione dell’integrità della fede produce inevitabilmente l’abbassarsi, o addirittura il crollo, della spiritualità cristiana. Tanto basti per renderci molto vigilanti su questo tema.
LA SPERANZA
 Dopo la fede dovremmo fare qualche accenno alla seconda virtù teologale (cioè che ha Dio per oggetto diretto): la speranza, ossia il desiderio di giungere a Dio, di possederLo eternamente; la confidenza e fiducia che, nella Sua bontà e misericordia, Egli ci trarrà a sé, dopo questa breve e faticosa prova terrena. Se possiamo esprimerci così, la speranza teologale è la fede che si fa desiderio e quasi pregustazione delle realtà future. La speranza è “attesa” di quella eredità che Dio ha preparato per noi suoi figli, attesa dei beni escatologici. S. Paolo scrive (1 Cor. 2, 9): <Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano>. E S. Giovanni (1 Giov. 3, 2): <Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarò manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è>.
 La speranza ha, perciò, come oggetto ciò che non si vede, ma che noi, tuttavia, come dice S. Paolo, “attendiamo con perseveranza” (Rm. 8, 25), sapendo dalla fede che esso procurerà una felicità immensa. La speranza teologale è un dono gratuito di Dio, un cammino gioioso, pur tra le inevitabili prove della vita, verso la luce e l’amore eterno. La speranza è talmente essenziale a noi cristiani, alla nostra identità specifica che, a differenza dei pagani di ogni tempo, possiamo essere definiti come coloro che “hanno speranza”.
 Detto questo è facile dedurre la funzione essenziale di questa virtù teologale nella nostra vita cristiana e spirituale, specialmente in questo tempo di appiattimento materialistico e di crisi esistenziali tra giovani ed anziani. La speranza genera, infatti, una ricca varietà di comportamenti indispensabili allo sviluppo della vita divina in noi, cioè alla santità. Vediamone qualcuno:

 La fiducia 
Non in noi stessi, ma nella promessa divina, cui ci affidiamo totalmente, superando ogni dubbio ed incertezza, ogni preoccupazione, ogni paura, ogni angoscia. Persino e soprattutto, la paura di fronte alla morte. Il cristiano dotato di speranza è una persona perennemente serena e che diffonde serenità attorno a sé, come avveniva in modo stupendo nei santi. S. Francesco: “Iacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet; non dabit in aeternum fluctuationem iusto” (Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno, mai permetterà che il giusto vacilli).

 La pazienza 
Come quella dell’agricoltore, il quale “aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra” (Giac. 5, 8). Pazienza necessaria a tutti, specialmente in certe circostanze dolorose della vita. Pensiamo a certe lunghe e strazianti malattie, a certi travagli familiari, a certi rovesci di fortuna e chi più ne ha, più ne metta, dato che nella vita la croce, prima o poi, in un modo o nell’altro, non manca a nessuno. Persino l’inferno, se ci fosse speranza di uscirne, non sarebbe più inferno…

 Il coraggio
E quanto ce ne vuole per affrontare le battaglie della vita! Il coraggio anche, di testimoniare sempre il Vangelo, anche quando costa…

 La gioia
La speranza teologale è ben più di una ipotesi nebulosa, per cui talvolta si sente gente che dice: “Mah, speriamo che dopo la morte ci sia qualcosa…” con una espressione titubante e quasi rassegnata che non sia così… La speranza cristiana è gioiosa certezza della gloria futura e ci fa vivere la vita nel tempo come radiosa vigilia di un giorno senza tramonto nel trionfo di Cristo Risorto, che ci attende nella Sua gloria.
Sentiamo l’apostolo Pietro: <Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella Sua grande misericordia Egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, PER UNA SPERANZA VIVA, in un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce… Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere per un po’ di tempo afflitti da varie prove…> (1 Pt. 1, 3 segg.). Il cristiano e la gioia sono tutt’uno, perché nessuno più di un vero cristiano ha una certezza più grandiosa e più sicura.
Nulla è più antitetico e contro testimoniante alla vita cristiana che il pessimismo, la malinconia, la musoneria, la sfiducia…Un cristiano triste – è stato detto – è un triste cristiano…Basterebbe ricordare, tra i tantissimi testi biblici a questo riguardo, ciò che esclama S. Paolo: <Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione> (2 Cor. 7, 4).

 La preghiera
Sarebbe impossibile pregare, se non avessimo almeno un briciolo di speranza. Anche le preghiere che nascono dai cuori più provati, già nell’Antico Testamento (vedasi Giobbe 3 o qualche salmo), manifestano la fiducia di un intervento di Dio, attendono ansiosamente una Sua risposta. Naturalmente più cresce la fiducia, la speranza, più la preghiera aumenta la sua efficacia, come dimostrano molti episodi evangelici.

 La speranza cristiana genera anche opere d’amore. 
Anche in situazioni umane disperate (carcerati, incurabili, pazzi, moribondi ecc.) il cristiano spera contro ogni speranza, ancorandosi in Dio ed agendo in conseguenza. Perciò anche le strutture della società terrena possono essere toccate dalla novità e dalla forza della speranza cristiana.
L’elenco degli atteggiamenti umani e cristiani sostenuti dalla virtù teologale della speranza potrebbe continuare, ma anche solo i pochi accenni fatti sono sufficienti a persuaderci che grande forza questa virtù costituisca per la nostra vita cristiana. Facendoci tendere con forza alla realtà futura, ai beni che non passano, la speranza teologale rende sciolto e deciso il nostro cammino verso l’Amore, verso la santità.
Essa aumenta le nostre energie, il nostro slancio nel fare il bene. Se nel mondo si fanno spesso sforzi disperati, si affrontano lotte e fatiche di ogni genere per raggiungere risultati materiali (e come tali mai totalmente soddisfacenti), quanto più noi cristiani, sorretti dalla certezza dell’intervento di Dio e della vittoria finale, potremo impegnarci in cose belle e sante, anche quando trascendono le nostre deboli forze…I Santi, uomini e donne della speranza, ci sono splendidi esempi in materia: basti pensare cosa è riuscita ad operare quella piccola donna rugosa che fu M. Teresa, a livello mondiale, e come lei e prima di lei, un D. Bosco, un D. Orione, un Cottolengo e mille altri. E cosa riusciremmo ad operare noi, nel nostro piccolo, se ci nutrissimo di più di speranza. Non presuntuosi, perché ben sappiamo che tutto dipende da Dio e senza di Lui non possiamo fare nulla di buono; ma neppure scoraggiati e, tanto meno, disperati. Il vero cristiano non si preoccupa troppo delle avversità terrene, ma cammina deciso e spedito verso i beni futuri. Non si disinteressa delle cose della terra, ma neppure vi ci si lascia invischiare e trattenere. Nessuno è impegnato come lui, ma nello stesso tempo libero come lui, perché il suo cuore è colmo di fiducia in Dio e il suo sguardo spazia su orizzonti che trascendono la scena del mondo presente.
Sappiamo anche che nei gradi più alti la speranza cristiana diventa spirito d’abbandono in Dio. Ci sentiamo come piccoli bambini nelle Sue braccia di Padre, ci lasciamo portare da Lui dovunque a Lui piaccia, diventiamo strumenti docili del Suo amore.
E’ “la piccola via” praticata ed insegnata dalla piccola Santa di Lisieux, Teresina del Bambin Gesù, che ha condotto verso i vertici dell’amore e dell’offerta di sé, centinaia di migliaia di anime. E su questa via si vive amando e si muore cantando. Per questo S. Francesco, giullare di Dio, era solito ripetere: <E’ tanto il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto!>, e così esortava i suoi frati: <Abbiamo promesso grandi cose, maggiori sono state promesse a noi; osserviamo quelle e aspiriamo a queste. Il piacere è breve, la pena eterna; piccola la sofferenza, infinita la gloria>. E vivendo con questa incrollabile speranza, morì cantando. Scrive di lui il suo primo biografo, fra Tommaso da Celano: <Sentendo che l’ora della morte era ormai imminente, chiamò a sé due dei suoi frati e figli prediletti, perché a piena voce cantassero le lodi al Signore con animo gioioso per l’approssimarsi della morte, anzi della vera vita>.
E’ quello che auguro a me e a voi, perché possiamo tutti cooperare a ridare speranza e certezza ad un mondo sbandato e demotivato e spesso disperato e deluso dinanzi ai suoi idoli materialistici, perché soltanto il nostro Dio è il Dio della speranza, in Cristo Gesù morto e risorto per noi!
LA CARITA’
Dopo aver detto qualcosa sulle due prime virtù teologali (che hanno direttamente Dio per oggetto) della fede e della speranza, ci rimane da soffermarci un poco sulla terza, che è la Carità.
 E siamo al cuore del cristianesimo e dell’Incarnazione del figlio di Dio, che è venuto tra noi proprio per questo: per riaccendere in pienezza il fuoco dell’amore a Dio e ai fratelli nel cuore dell’uomo, raggelato dal lungo dominio del peccato, che è essenzialmente il contrario dell’amore. Tutto il messaggio dell’A.T. non era che una preparazione a questo riaccendersi della pienezza dell’amore: “Pieno compimento della legge è l’amore!” (Rom 13, 10).
 Anzi, l’apostolo Giovanni insiste che la stessa vita del Dio Trino ed Unico è l’amore nella sua pienezza divina: “Deus charitas est!” (1 Giov 4, 16). E questo amore viene partecipato e diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, per i meriti infiniti di Gesù, che si è cruentemente offerto al Padre per amore di Lui e di noi, sue creature, divenuti in Maria suoi stessi fratelli. L’amore è il centro focale del cristianesimo, è il punto di raccordo di tutti i suoi aspetti, la linfa vitale e profonda della vita della Chiesa, comunità d’amore, e, nella sua pienezza beatificante nella Gerusalemme del Cielo, il punto di tensione massima dell’anima cristiana.
 Il discorso qui non finirebbe mai, perché ci troviamo dinanzi a panorami eterni ed infiniti! 
 L’amore (o carità), nella sua sostanziale unità, ha però due direzioni, una verticale, l’altra orizzontale, come le braccia della Croce: l’amore verso Dio e l’amore verso i fratelli. Due aspetti che non si possono mai separare, perché presi a sé stanti, risultano incompleti o addirittura falsificati: “Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Giov. 4, 20-21).
 E ancora: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di Lui è perfetto in noi” (1 Giov. 4, 11-12). In altre parole, l’amore ai fratelli è il banco di prova (di autenticazione) dell’amore a Dio.
Ma qui il discorso deve farsi molto concreto, com’è concreto “il prossimo” che ci circonda. In nessun altro punto come in questo un discorso evanescente risulterebbe farisaico. Ricordate la domanda di un dottore della legge, che voleva mettere alla prova Gesù (Lc. 10, 25-37)? “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge (mosaica)? Che cosa vi leggi?". Costui rispose (esattamente, dal Deuteronomio e dal Levitino, da buon dottore della Legge): "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso". E Gesù: "Hai risposto bene; fà questo e vivrai". Ma quegli, volendo giustificarsi (certo molti interrogativi e molti dubbi che portiamo spesso in ballo non sono che un larvato tentativo di mascherare le nostre inadempienze e il nostro peccato…), disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo?". Sappiamo che nella mentalità ebraica, ancor tanto imperfetta nei confronti della pienezza evangelica, che “prossimo” erano i membri del Popolo di Israele. Gli altri erano i “goim”, gli infedeli, spesso odiati e combattuti.
Gesù rispose:
"Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso". 
La conclusione? "Và e anche tu fà lo stesso", vale anche per noi!
Facendo attenzione a tutto l’insegnamento di Gesù sull’amore al prossimo, vi potremmo individuare tre livelli progressivi:
1. Amare il prossimo come noi stessi… E’già molto, certamente, data l’attenzione e la preoccupazione egocentriche che noi spesso manifestiamo…
2. Nel discorso d’addio: “ Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati” (Giov. 15, 12). E’ un salto qualitativo enorme… Divenire “eucaristia” per i fratelli…
3. Quando il discorso d’addio ai discepoli si trasforma in preghiera al Padre, Gesù dice: “Come Tu, Padre, sei in Me e Io in TE, siano anch’essi UNA COSA SOLA perché il mondo creda che Tu mi hai mandato” (Giov. 17, 21).
L’unione tra i discepoli di Cristo dovrebbe essere talmente profonda, totale ed indissolubile da non poter avere altra immagine e punto di confronto adeguati se non la perfetta unità di natura divina tra le tre Persone della SS. Trinità! Meta sublime e praticamente irraggiungibile su questa terra, ma che risulta un continuo stimolo a non adagiarci soddisfatti sui risultati raggiunti. E’ qui dove probabilmente faremmo bene a prendere come schema del nostro esame di coscienza il famoso “inno alla carità” nel cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.
Se avete contato bene, sono quindici aspetti o prerogative della carità, che costituiscono altrettante sferzate al nostro amor proprio e dalle quali nessuno di noi, proprio nessuno, credo, può ritenersi immune. E sarà bene ricordarcene quando andiamo a confessarci e diciamo di non aver nulla da accusare…
 E’ sul banco della carità, com’è presentata dalla Parola di Dio, che si gioca e si misura l’autenticità del nostro cristianesimo, non su santini, apparizioni (con tutto il rispetto per quelle vere…), veggenti, devozioncelle varie. Ci sono persone che vanno a Messa tutte le domeniche e le feste di precetto e poi non danno la giusta mercede ai propri operai ed impiegati, obbligandoli a lavorare in nero. Ci sono persone che ci tengono a definirsi cristiani praticanti, ma tutto praticano tranne la carità e la delicatezza per il prossimo più prossimo, che è quello di casa. Ci sono coloro che si credono buoni e disprezzano gli altri. E l’elenco potrebbe continuare. Bigotti, abitudinari, ipocriti non presentano che una grottesca caricatura del cristianesimo. Già nell’A. T. agli Ebrei che praticavano il digiuno e, nello stesso tempo, angariavano gli operai, Dio diceva (cfr. Isaia 58, 4-5): “Ecco, voi digiunate tra litigi ed alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi… E’ forse questo il digiuno che bramo?”
 Chi manca di carità dà una pessima contro testimonianza alla propria fede cristiana e probabilmente allontana parecchi da essa, tanto quanto era, invece, proprio lo spettacolo dell’amore fraterno dalle prime comunità cristiane quello che attirava molti pagani alla fede cristiana “Guarda come si amano!”, dicevano. E si convertivano. 
La tradizione racconta che Giovanni l’evangelista, vescovo della comunità cristiana di Efeso, giunto ad estrema vecchiaia, veniva trasportato a braccia a presiedere la celebrazione eucaristica…
E’ quello che auguro a me e a voi, qualunque sforzo di conversione dovessimo fare nella nostra vita quotidiana a questo riguardo. Altrimenti non ci sarebbe neppure senso che continuassimo a parlare di “spiritualità”. Neppure in “briciole”.
Maurizio Leotta

 FORTEZZA
Diciamo adesso qualcosa sulla virtù cardinale della fortezza. Non è certo un discorso facile e a buon mercato in un contesto di rilassatezza e di smidollatezza morale come quello in cui viviamo oggi, nella cultura del tutto facile, del tutto subito, del tutto abbondante, del tutto dovuto, dove forse schiacciando un bottone potremo un giorno evitare la fatica di rifarci il letto al mattino o di soffiarci il naso…
La fortezza è la virtù che spinge ad intraprendere e a portare a termine con costanza e coraggio il bene, nonostante le difficoltà. E’ quindi una condizione necessaria all’esercizio di ogni virtù, dovere ed opera buona. E’ un tratto caratteristico di chi è moralmente adulto. E’ condizione indispensabile per vivere il Vangelo autenticamente e in pienezza, ossia per essere vero cristiano, soprattutto in un clima post-cristiano, dove la fedeltà al Vangelo obbliga ad un vigoroso andare contro corrente.
Non è spavalderia, avventatezza. Non è forte (in senso cristiano) colui che, senza riflettere e senza discernere, si espone sconsideratamente al pericolo fisico o morale, ma colui che, dopo una giusta valutazione delle cose, sa affrontare fatiche e dolori per realizzare il bene. Colui che non si perde d’animo nemmeno di fronte agli insuccessi ed è irremovibile nel portare a termine la sua missione, costi quel che costi.
L’esempio più perfetto di fortezza, come sempre, l’abbiamo in Gesù stesso, dalla sua nascita nella povertà di Betlemme alla sua terribile Passione e morte in Croce, volontariamente abbracciate, nonostante la riluttanza della sua natura umana.
Il discorso della montagna, cuore del messaggio evangelico, è una proposta esigentissima, che non permette titubanze ed equivoci nel nostro donarci a Dio, anche quando ciò comportasse i più duri sacrifici, come quello di “cavare l’occhio” o di “tagliare la mano o il piede” (Mt. 5, 29)
Gesù richiedeva fortezza soprattutto agli Apostoli: chi voleva seguirlo più da vicino, appunto come apostolo, doveva essere disposto a vendere tutto per darlo ai poveri, condividere la sua vita raminga e randagia e persino rinunziare a seppellire il proprio padre o a prendere commiato da casa e, come coronamento di tutto, abbracciando la Croce, divenire partecipe del mistero della Sua dolorosissima Passione: <<Se qualcuno vuol venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua>> (Mt. 16,…)
Uno degli errori che oggi facciamo con più facilità, anche all’interno della Chiesa, e che costituisce una vera e propria adulterazione del Vangelo e un suo svuotamento, è quello di presentare un cristianesimo edulcorato all’acqua di rose, per non urtare la suscettibilità dell’uomo contemporaneo, allergico ad ogni esigente imperativo morale.
Ma così facendo, non ci rendiamo conto di presentare una caricatura di cristianesimo, adatto a tutti i palati, anche i più schizzinosi e perciò stesso insipido e insignificante. E così capita, secondo la predizione di Gesù, come al sale divenuto insipido, che non serve a nulla, se non ad essere buttato sulla strada e calpestato.
Mi ricordo la mia grande delusione, quando ancora bambino, mi incontrai per la prima volta con un frate francescano e già sentendo il fascino del Poverello di Assisi chiesi se la Regola dei frati era ancora austera come ai tempi di Francesco. Quel buon frate, forse per non spaventare una possibile vocazione, mi rispose di no, perché bisognava adeguarsi ai tempi d’oggi ecc… me ne uscii dal quel colloquio molto triste, sperando in cuor mio che quel frate non avesse detto il vero.
Penso che per formare una nuova generazione di veri cristiani, per lanciare una “nuova evangelizzazione”, più che fare sconti indebiti sul Vangelo, bisogna dare a giovani e meno giovani il gusto delle cose difficili, ardue, generose, il gusto della santità non i compromessi della mediocrità, giacché a tutti Gesù rivolge l’invito–comando “Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli”.
Esistono varie virtù (o atteggiamenti virtuosi) che sono connesse alla fortezza, come la magnanimità (o desiderio di compiere cose grandi per il Signore) e, soprattutto, la pazienza, o capacità di sopportare con fermezza e serenità le prove e le sofferenze inerenti alla vita umana e cristiana. Siamo chiamati ad essere pazienti (e forti) nella vita quotidiana portando in silenzio le fatiche del lavoro, il peso di un servizio a favore di un anziano, di un malato da anni gettato su di un letto e bisognoso di tutto, il disagio di accogliere con amore le asprezze, le debolezze e le stranezze di carattere del marito o della moglie, dei figli ecc., gli insuccessi nella vita, la molestia delle tentazioni e, finalmente gli inevitabili acciacchi della vecchiaia… e chi più ne ha più ne metta!.
Quanta pazienza e fortezza sono necessarie nella vita quotidiana di quasi tutti noi!
Tutto ciò può talvolta paragonarsi ad un martirio prolungato ed incruento che solo l’amore sa accettare, amore che affonda le sue radici nel Sacrificio di Cristo.
Il cristiano forte e paziente si santifica, espia il peccato proprio e del mondo, si prepara uno smisurato ed eterno grado di gloria (cfr 2 Cor. 4,17), diviene collaboratore con Cristo alla salvezza del mondo: <<Io completo nella mia carne – scrive S. Paolo ai Colossesi – quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa>> (Col. 1,2..)
Perciò S. Paolo considerava le sofferenze come una grazia e si gloriava della sue innumerevoli tribolazioni. Lo stesso faceva S. Pietro, quando scriveva: <<E’ una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente… A questo infatti siete stati chiamati>> (1 Pt. 1,19). E ancora <<Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi>>. (1 Pt. 4,13-14).
La croce produce, però, tutti questi effetti solo se trova in noi le dovute disposizioni: 
- solo se accettata umilmente dalla mano di Dio;
- solo se portata con pazienza e con sottomissione alla sua volontà;
- solo se illuminata dalla preghiera;
- solo se messa a contatto con la Croce di Gesù;
- solo se segnata dal Suo Sangue.
 Vorrei leggervi a questo riguardo una preghiera di San Francesco: <<Ti ringrazio Signore Dio per tutti questi miei dolori (…) e ti prego, o Signore mio, di darmene cento volte di più, se così ti piace. Io sarò contentissimo se tu mi affliggerai e non mi risparmierai il dolore perché adempiere alla tua volontà è per me consolazione sovrappiena>> (Leg. M,14,2).
 Interessante ricordare che fonte privilegiata di questa fortezza cristiana dovrebbe essere il sacramento della cresima, quando lo si riceve con le dovute disposizioni e se ne coltiva lo sviluppo in noi. La grazia conferita dalla cresima è simile alla potenza dello Spirito che invase gli Apostoli nel giorno della Pentecoste: <<Avrete forza dalla Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni>>. (At. 1,8).
 Lo Spirito Santo già lo si riceve nel battesimo; nella cresima si accentua la sua azione corroborante.
 Ed, allora, vedete, è necessario chiedere a Dio non tanto l’esenzione dalla sofferenza, ma la forza necessaria per trasformarla in un offerta d’amore.
 Un altro grande stimolo della fortezza cristiana è la meditazione della Passione di Gesù perché ci spinge ad un’imitazione generosa. Per questo il pio esercizio della Via Crucis, quando è compiuto con intimo raccoglimento, può giovare moltissimo a rafforzare i nostri propositi di bene.
Quel grande missionario popolare del 1700 italiano, il francescano S. Leonardo da Porto Maurizio, fu l’inesausto propagatore della Via Crucis, proprio nella convinzione che questa devozione costituisse una pista privilegiata per il rinnovamento religioso e morale del popolo.
Un campo di applicazione particolarmente attuale della virtù della fortezza mi parrebbe oggi quello del rispetto umano, come si suol dire, cioè di quella paura che ci spinge ad omettere dei giusti doveri religiosi o atti esterni di culto per timore delle canzonature o dei giudizi sfavorevoli di qualcuno. In una società secolarizzata è facile incontrare il sorrisino sarcastico o la parola pungente se uno si manifesta cattolico praticante. E questo soprattutto tra i giovani per cui è facile che anche se uno è sinceramente convinto di dover frequentare, per esempio, la Messa domenicale, ma si trova per strada o al bar con un gruppo di amici, non trovi il coraggio di salutarli e dire <<Io me ne vado, perché devo andare a Messa!>>. Oppure persino nella chiesa stessa, uomini che potrebbero ricevere Gesù Eucaristico (e lo desidererebbero) ma si sentono paralizzati da una stupida forma di rispetto umano ad accostarsi all’altare. Ho visto militari, che magari avrebbero partecipato con coraggio ad un’azione bellica pericolosa, avere un timor panico nel manifestare pubblicamente la propria fede e convinzione cristiana. 
Per un rilancio cristiano ed umano della nostra società abbiamo veramente urgenza di uomini e donne spiritualmente forti, dalla spina dorsale solida e non di farfalline svolazzanti ad ogni soffiar di vento. Gesù ha detto che sono i violenti a impossessarsi del Regno dei Cieli. Non certo i violenti contro gli altri, perché Gesù contraddirebbe se stesso, avendo esaltato i pacifici ed i miti ed umili di cuore, ma i violenti contro se stessi, cioè tutti coloro che sanno dominare con forza le proprie passioni disordinate, le proprie paure, incostanze e indecisioni. 
Sì, non sono forti quelli che battono i pugni sul tavolo e sbattono le parte: costoro sono dei poveri deboli, psicologicamente e moralmente!
Sono veramente forti coloro che sanno porgere l’altra guancia o rispondere con un sorriso ad un insulto… Come cambierebbe il mondo se tutti noi ci sforzassimo ad avere un po' di questa forza! Ci vogliamo provare?


TEMPERANZA
Nella trattazione delle virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ci rimane di dire qualcosa su quest'ultima, che potremmo definire “Quella virtù che ci insegna ad usufruire dei beni materiali e spirituali con discrezione ed entro i limiti voluti da Dio”. E da tale definizione si desume a volo che discorso delicato e difficile è mai questo in una società e in una cultura contrassegnate dall'impeto travolgente delle passioni più disordinate... Discorso difficile e perciò stesso più necessario ed urgente. E per rendere più concreto ed efficace questo argomento, potremmo suddividerlo in tre sottotitoli: la sobrietà, la castità e l'umiltà, a seconda appunto dei piaceri che la temperanza è chiamata a moderare.
LA SOBRIETA'. È una virtù morale che esercita la sua azione moderatrice in particolare verso i piaceri più connaturali all'uomo e alla donna di qualsiasi età, che sono quelli connessi all'uso del cibo e delle bevande, sopratutto inebrianti.
Piaceri che ci fanno facilmente sconfinare dai limiti imposti dalla ragione e dal vero bene dell'uomo. Questi sconfinamenti disordinati recano un danno non indifferente, specialmente per chi vuole progredire nella vita spirituale. Si pensi, ad esempio, alla devastazione fisica, morale e famigliare che può derivare dall'intemperanza nell'usare bevande alcoliche ed inebrianti. Persino molte azioni delittuose possono nascere dall'ubriachezza, come la cronaca nera quotidiana ci dimostra.
I disordini della gola nel bere e nel mangiare appesantiscono e danneggiano l'uomo (e la donna) non solo fisicamente, ma ancor più spiritualmente, in quanto producono il trionfo dell'elemento materiale su quello spirituale dell'uomo. Gesù quando vuole indicare una vita egoista ripiegata sui piaceri dei sensi ed insensibile ai bisogni altrui, la presenta nella figura del crapulone (parabola del ricco epulone che disprezza la fame e le piaghe del povero Lazzaro ai suoi piedi. E qui si vede come sono stretti i legami, i rapporti tra sobrietà e carità (amore al fratello). L'intemperante è così vivamente preoccupato di procurarsi e di non perdere il piacere della gola e garantirselo in ogni modo e con ogni mezzo da dimenticare quasi completamente il rapporto d'amore con Dio e con i fratelli bisognosi. Si va alla ricerca del ristorante raffinato e dispendioso e ci si dimentica (o si vuole dimenticare) che poco distante da noi ci sono fratelli che sarebbero felici di potere usufruire degli avanzi che noi lasciamo nel piatto per troppa sazietà. Si, è la parabola del ricco epulone che si ripete alla lettera....Ma stiamo attenti che puntualmente non si verifichino anche le conseguenze descritte da Gesù....
LA CASTITA'. E' quell'aspetto della temperanza che regola l'esercizio delle facoltà sessuali della persona umana secondo le norme della ragione e della fede cristiana con specifico riferimento alle diverse vocazioni e condizioni di vita, per cui si può parlare di una castità verginale e di una castità matrimoniale, notevolmente diverse nelle applicazioni pratiche, ma accomunate da uno stesso sforzo morale. Mascolinità e femminilità sono doni e vocazioni complementari, destinati a realizzarsi, ordinariamente, nella dedizione reciproca della sponsalità: la dimensione sessuale della persona è perciò un bene, che ha per fine l'amore umano.
Affinché mascolinità e femminilità, profondamente sconvolti dal peccato originale, non trasbordino dalla loro finalità provvidenziale, occorre che vengano educati ed espressi in maniera autenticamente umana e a servizio della vita nel contesto del matrimonio, per garantire la santità del quale, Gesù ha addirittura istituito un sacramento specifico. Se la persona non è padrona di sé, attraverso la virtù della castità, manca di quell’autocontrollo che la rende capace di donarsi solo nel contesto voluto e predisposto da Dio, che è quello del matrimonio monogamo ed indissolubile.
La castità è l’energia spirituale che sa attendere e che, nel matrimonio, libera l’amore dall’egoismo e dall’aggressività. La castità di due sposi è la padronanza di sé per il dono di sé, quindi virtù che custodisce e nutre l’amore. Nella misura in cui negli sposi s’indebolisce la castità, il loro amore diventa progressivamente egoistico, cioè soddisfazione disordinata di un desiderio di piacere e non più dono di sé. La castità è il coraggio di dire “no” all’amore falso (o in parte falso), per avere la forza di dire “si” all’amore vero, quello con l’A maiuscola.
La castità di due sposi è la decisione tenace e fedele di rifiutare l’uso di sé e dell’altro come “cosa” e di educare e celebrare il senso della persona, il rispetto dell’altro, la vocazione alla comunione nell’ordine e nell’armonia.
Un discorso delicato e difficile oggi questo, in questa violenta pressione della cultura materialistica contemporanea, ma che la Chiesa di Cristo non può tralasciare, nella fondata speranza di incontrare accoglienza in persone di retto e nobile sentire. E noi ci auguriamo, anzi siamo sicuri, che ce ne sono molte tra noi, ringraziando Dio.
A questo punto sarebbe doveroso un accenno anche alla verginità consacrata, cioè scelta per ragioni superiori di intimità con Dio e di dedizione totale a servizio dei fratelli, profumo delicato e divino che ha avvolto di sé tutti questi 2000 anni di storia ecclesiale, partendo dalla verginità purissima e feconda della Madre di Dio (è l’unico privilegio a cui Gesù non ha rinunciato: quello di avere una madre vergine!) per giungere a M. Teresa o alla suora, che, tra noi o in terra di missione, offre la sua verginità di cuore e di corpo a servizio dell’Amore. Chi può comprendere, comprenda, direbbe oggi Gesù.
Anzi è tanta la fecondità spirituale della verginità consacrata che la Chiesa la richiede come disposizione oblativa al dono totale di sé, nonostante le immancabili difficoltà in materia, ai suoi sacerdoti, almeno quelli di rito latino. Grande forza quella del celibato sacerdotale e per questo accanitamente contestata dai nemici della Chiesa, oggi più che mai. Ma la Chiesa non cede su questo punto, anche se non è, strettamente parlando, un’esigenza dogmatica unita all’esercizio del ministero sacerdotale, ma solo una ricchezza preziosa della sua tradizione spirituale.
Tutto questo discorso sulla temperanza nelle sue espressioni di sobrietà e castità esigerebbe come preliminare un allenamento della volontà che il linguaggio cristiano è solito indicare con i termini mortificazione o penitenza, entrambi molto ostici alla sensibilità del materialismo e edonismo contemporanei. Ma è evidente che è assai arduo mantenersi sobri e casti, data la forte ed irruente attrazione dei piaceri sensibili, senza tale allenamento alla mortificazione e alla penitenza. Del resto qualsiasi forma di agonismo sportivo implica un allenamento, spesso prolungato ed esigente. E la gioia del risultato o della vittoria raggiunta ripaga ad oltranza l’atleta dello sforzo di allenamento compiuto.
E’, dunque, indispensabile educare noi stessi e le persone affidate alle nostre cure, iniziando proprio dai nostri bambini mai contenti, a non assecondare ogni desiderio con la prassi dei piccoli fioretti volontari, tanto in auge in tempi di maggiore autenticità cristiana.
L’ UMILTA’. Per completare questo nostro discorso sulla temperanza, dovremmo fare un breve cenno anche alla virtù dell’umiltà, che modera l’impulso istintivo dell’uomo (dopo il peccato originale) all’affermazione esagerata e vanagloriosa di sé. L’umiltà, che in fondo è verità e retta conoscenza di sé, ci aiuta a stimarci per quello che veramente siamo e valiamo e quindi a cercare il nascondimento e perfino il disprezzo, ad esempio di Gesù volontariamente umiliato. Se esaminiamo con sincerità e chiarezza la nostra realtà personale, ci accorgeremo che ciò che vi è di buono in noi viene da Dio. «Che hai tu che non abbia ricevuto? » (1Cr 4,7).
Di veramente nostro, e soltanto nostro, c’è il peccato! “Ahimè, si domanda S. Francesco di Sales, forse che i muli cessano d’essere bestie rozze e maleodoranti per il fatto che vanno carichi di mobili preziosi e profumati di un principe?”.
L’umiltà è la chiave che apre i tesori della Grazia:«Dio resiste ai superbi, ma dona grazia agli umili». (1 Pt 5,5). Essa è il fondamento di tutte le virtù, che con lei divengono più perfette e si radicano più profondamente in noi. Essa è come il sale in cucina…
Comprendiamo, allora, perché S. Agostino dica: « Vuoi elevarti? Comincia con l’abbassarti». Pensi di costruire un edificio che tocchi il cielo? Pensa prima a porre le fondamenta. Tanto più alto vuol essere l’edificio, tanto più profonde dovranno essere le fondamenta.
A proposito vorrei, terminando, leggervi alcune righe su questo argomento di quel concretissimo e sapido autore che è S. Francesco di Sales (“Introduzione alla vita devota”):«Diciamo spesso di essere nulla, di essere la miseria in persona e la spazzatura del mondo, ma resteremmo ben male se qualcuno ci prendesse in parola e pubblicamente ci trattasse secondo quanto andiamo dicendo di noi stessi. Anzi, facciamo finta di fuggire di nasconderci solo perché ci corrano dietro e vengano a cercarci; ci diamo l’aria di volere essere gli ultimi, seduti all’ultimo posto della tavola, ma solo per passare con più onore ai primi posti».
Ah, com’è difficile essere veramente limpidi e puri di cuore agli occhi di Dio. 
Le Virtù 
Si è già passato in rassegna, nella loro natura e nei loro effetti negativi, i sette vizi capitali: orgoglio, invidia, ira, gola, lussuria, accidia, avarizia, ossia tutte le possibili piste di peccato che si sono aperte in noi dopo la ribellione dei nostri progenitori o peccato originale.
Ma la vita divina che ci è stata ridonata gratuitamente (e perciò la chiamiamo “Grazia”) nel giorno del Battesimo, tende, per sua natura, a svilupparsi, cioè è una realtà fortemente dinamica. Ed allora noi cercheremo ora di esaminare le varie piste positive da seguire nel nostro cammino verso l’unione con Dio, nella nostra crescita spirituale, così come si evince dalla Rivelazione e dalla riflessione teologica della Chiesa, cioè il cammino di quelle che noi chiamiamo Virtù. Un discorso quanto mai attuale ed urgente al giorno d’oggi, dove di tutto si parla tranne che di virtù e di santità.
Ed incominciamo con le virtù cardinali o morali, che sono quattro: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza

PRUDENZA
Di per sè la “prudenza” potrebbe essere definita la capacità che può avere l’uomo nello scegliere i mezzi più adatti a raggiungere gli scopi che si prefigge. E siccome gli scopi dell’uomo possono essere purtroppo anche cattivi, S. Paolo parla di una prudenza carnale, che prende consiglio dalle passioni disordinate e persegue fini peccaminosi, servendosi anche di mezzi malvagi. Più che prudenza, dovrebbe essere chiamata “astuzia” o sapienza diabolica, come la chiama S. Giacomo (3, 15).
Accanto alla prudenza carnale e peccaminosa, si dà anche una prudenza del tutto naturale. Noi parliamo per esempio di un uomo d’affari “prudente”, di uno statista, di un educatore, di un artista, ecc. prudenti. Tutti uomini abili nel perseguire interessi e scopi buoni, ma nell’ambito puramente naturale. Questa prudenza umana e naturale è molto importante e apprezzabile per la vita tanto individuale che sociale, ma non è la virtù soprannaturale e infusa di cui ci accingiamo a parlare, che mette in cima a tutto la la salvezza dell’anima e i beni soprannaturali, rispondendo ad un interrogativo di fondo:«A che cosa serve questo per l’eternità? Aiuta la salvezza dell’anima o la mette in pericolo? » 
Il cristiano prudente valuta ogni cosa da questo punto di vista. Gesù stesso ha dato, in forma di domanda, un criterio da adottare nel nostro agire: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? » (Mt 16, 26)
La virtù infusa della prudenza si ispira al Vangelo non solo riguardo al fine dell’agire, ma anche nella scelta dei mezzi necessari od utili per raggiungerlo. La prudenza cristiana costituisce la non facile soluzione ottimale di aspetti della vita evangelica che potrebbero sembrare opposti. Per esempio il sapere armonizzare l’indispensabile mitezza ed umiltà di cuore con la decisione e la fortezza, ugualmente necessarie nella lotta cristiana. Parimenti l’ubbidienza con il senso di responsabilità, o l’austerità della vita con la sapiente moderazione, o ancora il senso di giustizia con quello della comprensione e della misericordia.
E’ difficile, dicevamo, compiere quest’opera di armonizzazione, ma è indispensabile al cammino della santità. La prudenza è una compagna fedele durante tutto il cammino della perfezione cristiana. E non solo per quanto ci riguarda personalmente, ma anche per l’esercizio dell’apostolato, in cui, pur con tutta la fedeltà ai principi del Vangelo, bisogna sapere tener conto delle circostanze di vita, del grado di cultura, delle capacità di comprensione, dello stato d’animo e delle disposizioni di coloro ai quali si vuol far giungere la Parola del Signore. Altrimenti invece che del bene si compiono disastri. Del resto Gesù stesso usava questa prudente gradualità nel manifestare la Sua natura divina ed i segreti del Regno del Padre suo alle folle e agli stessi discepoli.
La prima esigenza della virtù della prudenza è, dunque, che non si agisce con precipitazione ed emotività. Quanta gente, infatti, si lascia guidare dalle impressioni e dagli stati d’animo del momento! Si entusiasmano o si impennano dinanzi a qualsiasi proposta, senza esaminarla e vagliarla con calma, serenità ed attenzione. E ciò si rivela particolarmente dannoso quando si hanno responsabilità di autorità o di educazione: un superiore, un genitore, un educatore emotivo ed imprudente, anche se ben intenzionato, può produrre facilmente danni irreparabili, creando attorno a sé un clima di tensione e reazioni rabbiose ed inconsulte. Le passioni disordinate, la sensualità, le simpatie ed antipatie, l’ira, l’invidia, l’ambizione ecc. sono le grandi nemiche della prudenza cristiana, perché si elevano come un nuvolone di polvere che offusca la vista. Quante volte, per esempio, in un impeto di collera, abbiamo detto una parola, abbiamo scritto una lettera, abbiamo preso una decisione della quale, tornata la calma, abbiamo probabilmente dovuto pentirci amaramente! E’, quindi, regola elementare di prudenza non prendere alcuna decisione importante, non mettere mano ad un affare di rilievo, non fare una riprensione, quando si è interiormente sconvolti da qualche passione. Lasciamo calmare le acque e si eviteranno così molte dannose imprudenze. Ciò, evidentemente, non vuol dire cadere nell’eccesso opposto di non sapere mai prendere una decisione. C’è una ponderazione esagerata che diventa blocco e indecisione patologica, mentre nella vita, e, ripetiamolo, soprattutto in certi posti di responsabilità, è necessario agire con una certa ponderata fermezza e tempestività. Pensate, per esempio, ad un chirurgo dinanzi ad un intervento rischioso, ma urgente. Se un cacciatore mirasse e poi mirasse ancora, senza decidersi a premere il grilletto, non avrebbe molte probabilità di fare una buona preda…. In fondo lo afferma anche la sapienza popolare nel famoso proverbio:”Chi non risica, non rosica!”
Quindi, nel processo di maturazione umana e cristiana, si deve giungere gradatamente ad una sana indipendenza di giudizio e di azione. Bisogna imparare a camminare coi propri piedi e senza bisogno di troppe stampelle, altrimenti siamo ancora nell’infantilismo, nell’immaturità. Ma anche qui, attenzione alle esagerazioni! Dice la Parola di Dio: «L’uomo assennato non trascura l’avvertimento degli altri» (Sir 32, 18). Soprattutto quando questi “altri” non sono i primi venuti, ma persone qualificate per saggezza, per ministero e per grazia. Ancora il Siracide ci ammonisce: «Uno tra mille sia il tuo consigliere» (Sir 6, 6). Il vecchio Tobia raccomandava a suo figlio: «Chiedi il parere ad ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio» (Tob 4, 18). Evidentemente è inutile domandare consigli se non si è interiormente disposti ad accettarli o, almeno, a prenderli in seria considerazione. Perché vi sono quelli che domandano consiglio solo per trovare conferma alla propria opinione e alla decisione già presa.
Qui sarebbe opportuno spendere qualche parola sulla salutare pratica della DIREZIONE SPIRITUALE, terreno privilegiato per il fiorire e il fruttificare della prudenza cristiana. La storia della Chiesa, anche recente, ricorda uomini di Dio particolarmente datati del dono del consiglio (che perfeziona la virtù della prudenza) e ricchi di una intuizione soprannaturale che permetteva loro di indicare con certezza ciò che era più conveniente fare in casi anche molto delicati e difficili. E’ impossibile calcolare il bene operato da tali direttori o consiglieri spirituali con chi si rivolgeva a loro e la grazia di incontrarli sul nostro cammino. Ma anche qui l’ottimo potrebbe essere nemico del bene, come si dice, perché non è sempre pensabile di trovare a portata di mano un San Padre Pio o un S. Leopoldo Mandic da Padova e sarà allora saggio e prudente sapersi avvalere di qualche buon sacerdote, dotato di pietà e di saggezza.
Potremmo anche dire che normalmente una confessione sacramentale celebrata con calma potrebbe anche essere un’ottima occasione per una qualche forma di direzione spirituale…. Anzi la direzione spirituale richiesta ed esercitata nella Grazia specifica del Sacramento della Riconciliazione dovrebbe avere una speciale efficacia, come l’esperienza conferma. Tra l’altro una buona direzione spirituale dovrebbe aiutare ad evitare un’altra grande nemica della prudenza e, in genere, della vita cristiana: l’INCOSTANZA. 
E’ incostante quell’uomo che cambia da un momento all’altro e senza motivi profondi il suo giudizio, l’orientamento della sua volontà, il suo modo di agire. Oggi è tutto fuoco per un’idea, domani la condanna e la combatte. Oggi è entusiasta per un progetto, domani l’abbandona. Oggi è sicuro della propria vocazione, domani è dubbioso e vacillante. L’incostante muta spesso (o addirittura abbandona) le sue pratiche di pietà, i suoi impegni parrocchiali, il suo confessore. Il Signore non può prendere saldamente per mano l’incostante e condurlo alla santità: gli sfugge continuamente, simile ad un bambino che sfugge di mano alla mamma tutte le volte che vede una farfalla… Ecco perché Gesù afferma: «Nessuno, che ha messo mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62).
Una tendenza all’incostanza è propria di tutti. Il grado dipende in gran parte dall’emotività e dal temperamento. Ecco perché l’ubbidienza al direttore spirituale educa alla costanza e quindi rende possibile il progresso spirituale.
A formare un’anima costante e prudente vale, poi, moltissimo la preghiera, soprattutto l’orazione mentale, pratica molto diffusa, nei decenni scorsi, specialmente tra i membri, anche giovanissimi, dell’Azione Cattolica e di altre associazioni laicali, ma oggi necessitante di un rilancio su larga scala. Quanto più le motivazioni naturali e soprannaturali, acquisite nella preghiera, diventano sangue del nostro sangue e norme ispiratrici della propria vita, tanto più andrà diminuendo e sparendo ogni vacillamento e incostanza. E’ l’orazione mentale che radica sempre più il nostro pensiero e la nostra volontà nella luce e nell’amore di Dio, cioè in Dio stesso.
Concludiamo. Troppo spesso ci lasciamo condizionare dal nostro modo di pensare e di comportarci dal e dalle chiacchiere degli altri. Pensiamo di essere liberi, ma in realtà siamo pilotati dall’opinione pubblica prevalente. Dobbiamo, certamente, tenere prudentemente conto del modo di vedere degli altri, quando è saggio e corretto, ma non bisogna dimenticare che è impossibile accontentare tutti e che ciò che più conta è accontentare Dio. Nel nostro modo di pensare, di parlare, di agire dobbiamo essere, come ci dice Gesù, “semplici come colombe”, cioè lineari e schietti nella nostra personalità evangelica, così come “astuti come serpenti”, cioè prudenti e perspicaci nell’individuare ed evitare tutto ciò che può intaccare e menomare la nostra testimonianza cristiana, che mai come oggi, in una società ed in una cultura che sta diventando pagana, deve essere chiara, forte e senza compromessi.   
GIUSTIZIA
Dopo aver trattato della prudenza cristiana, diciamo qualcosa della seconda virtù morale, la giustizia.
Nel linguaggio biblico la parola “giustizia” si identifica spesso con “santità” – <<Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati>> (Mt. 5,6)
Noi, invece, diremo qualcosa di questa virtù in un significato più ristretto, indicandola come quella virtù che inclina la volontà a rendere costantemente agli altri tutto ciò che è loro dovuto. E questi “altri” possono essere Dio stesso (e allora la virtù di giustizia si chiama virtù di religione), la Chiesa, la societa’ civile, il nostro prossimo (secondo il legame più o meno stretto che abbiamo con lui).
Se si perdesse il senso della giustizia nelle relazioni umane a vari livelli, la vita della società cadrebbe nel caos e la società stessa si trasformerebbe in una giungla di bestie feroci, dove ci si azzanna a vicenda e dove domina il “diritto del più forte”. Cosa che, purtroppo, la storia, anche recente o contemporanea, molto frequentemente dimostra.
E diciamo pure che la giustizia viene ancor prima della carità. Infatti, come anche il Concilio Vaticano II ricorda, se non si adempiono prima gli obblighi di giustizia, è farisaico parlare di carità. Troppo spesso noi siamo soliti definire doni caritativi quelli che sono doveri di stretta giustizia verso i fratelli bisognosi di casa nostra e del mondo intero…
Ma allora, per meglio capirci, sarà bene distinguere una triplice giustizia: la giustizia legale, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa.
La GIUSTIZIA LEGALE riguarda i doveri che gli uomini hanno nei confronti del bene comune e della società civile e religiosa. Noi tutti siamo portati ad un individualismo egoista e arrivista, per cui siamo continuamente tentati di concludere: …purché questa cosa serva al mio interesse, alla mia comodità, al mio piacere, del resto non m’importa, anche se dovesse danneggiare gli altri…
E’ la distruzione della società, attraverso evasioni e violenze di ogni tipo, di cui, per esempio, la mentalità “mafiosa” e delinquenziale è classico esempio.
Per cui un concorso lo si fa vincere non a chi se lo merita per intelligenza e preparazione, ma a chi è sostenuto da interessi e spinte politiche. Ma qui forse andiamo già a sfociare nella “giustizia distributiva”.
Entra nella giustizia legale l’obbligo morale di pagare le tasse allo Stato, almeno quando non divengono evidentemente esorbitanti e di osservare le sue leggi, almeno fin quando non contrastano con la legge superiore di Dio (come nel caso del divorzio, dell’aborto e, Dio non voglia, in futuro anche dell’eutanasia).
Rientra nella giustizia legale anche la cura del bene pubblico, il rispetto dell’ambiente (ecologia) e dei servizi pubblici. Sappiamo come in altre nazioni, dove si e’ più educati a queste virtù civili, anche una piccola infrazione al bene pubblico, come gettare carta per terra nei luoghi pubblici, può essere giustamente penalizzata dalla legge.
Noi italiani, forse, siamo portati a ridere ed a infischiarcene di queste norme che regolano la vita sociale, ma non è bene, perché tutto ciò che ha valore umano ha anche valore cristiano. Insomma, per usare un’espressione evangelica, si tratta di “dare a Cesare quello che è di Cesare”.
Quanto sarebbe utile e bello che questo principio fondamentale regolasse l’impegno civico e politico di tutti! Come sarebbe bello che tutti fossimo portati a sacrificare noi stessi, le nostre soddisfazioni, il nostro tempo, le nostre cose, in vista del bene comune! Ma qui mi accorgo che la giustizia si eleverebbe a vera e propria carità (non nel senso di elemosina, ma di amore oblativo), la quale non è possibile – sia detto chiaramente anche questo – senza un riferimento più o meno diretto a Dio ed un aiuto della Sua grazia.
Vorrei anche ricordare, per noi credenti e cattolici convinti, che questa giustizia legale porta a promuovere il bene comune non solo nell’ambito della società civile, ma anche nella società religiosa, cioè della Chiesa, di cui il Battesimo ci ha fatti membri coscienti e responsabili.
Sovvenire alle necessità della Chiesa – per es. con la destinazione dell’8 x 1000 nel pagamento delle tasse - è anche un obbligo morale di giustizia per una coscienza retta e sensibile. Queste semplicissime e basilari osservazioni ci fanno capire quanto ordine, quanta armonia, quanta bellezza immetterebbe nella vita sociale una coscienza chiaramente cristiana, cioè una vita che tenda al servizio, al dono e non all’egoismo. Ma qui, lo ripeto, si sale un gradino e dalla giustizia si sale alla carità …
Diciamo, dunque, qualcosa sulla GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA, che è quella che inclina a dare a ciascuno il suo, non solo secondo una mentalità “contrattuale” del dare ed avere, ma tenendo conto del giusto bisogno dell’altro. Forse è qui dove la dottrina sociale cristiana si differenzia enormemente da una dottrina “capitalista” od anche al polo opposto, “collettivistica”, in cui chi detiene il potere politico od economico dice all’individuo : “tu mi rendi tanto, io ti retribuisco tanto e non di più”. Una dottrina squallida (e perciò ingiusta) che guarda alle cose e non alla persona, valore fondamentale nella visione cristiana della vita. Pensiamo agli inizi della società industriale, quando donne e bambini erano costretti ad un lavoro massacrante con orari e condizioni ambientali disumani, con uno stipendio, a dir poco, da fame. Qualcosa che fa venir in mente le condizioni di schiavitù del popolo ebraico in Egitto al tempo dei faraoni… E i faraoni e gli schiavi non sono purtroppo solo un ricordo dei tempi pre-cristiani, ma sono giunti, qua e là nel mondo, fino ai nostri giorni. E se la storia ci obbliga a riconoscere che talvolta anche qualche cristiano si è messo dalla parte dei faraoni, è giusto ricordare come il magistero della Chiesa si sia sempre coraggiosamente pronunciato a sostegno della giustizia sociale, soprattutto nella società cosiddetta industriale, dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII agli ultimi documenti ed interventi a raggio mondiale di Papa Giovanni Paolo II.
E l’azione della Chiesa non si é espressa solo in documenti scritti, ma in un’azione sociale che ha del prodigioso in tutti i settori del bisogno umano, dall’infanzia alla vecchiaia, dall’istruzione popolare all’assistenza medica, nei nostri paesi cosiddetti civili come nelle zone più depresse del terzo mondo, da Vincenzo De’ Paoli a Madre Teresa di Calcutta.
Solo la disonestà intellettuale potrebbe negare questa realtà così evidente. E se l’azione della Chiesa non è stata, e non è tuttora, sempre sufficiente a colmare e ad eliminare le ingiustizie del mondo, non sarà forse perché anch’io, così pronto nel criticare, non mi sono impegnato a vivere le conseguenze di giustizia e di amore del mio battesimo?
Ma facciamo qualche accenno anche alla terza forma di GIUSTIZIA che e’ quella COMMUTATIVA, ossia quella che regola diritti e doveri degli uomini tra loro, facendo rispettare tutti i diritti di ognuno: il diritto alla vita (in primo luogo!), il diritto alla proprietà, il diritto alla libertà, il diritto all’onore e alla reputazione.
E qui, evidentemente, si evidenza una lunga lista di peccati, che richiederebbero ciascuno una trattazione specifica: il furto, la frode, l’usura (una della più gravi, crudeli e disastrose forme di ingiustizia; più grave certamente del furto, perché esercitata metodicamente e freddamente e chissà quanto disgustosa e punibile agli occhi di Dio!), l’omicidio, l’aborto, il sequestro, le false accuse e testimonianze, le ingiurie, gli affronti, le calunnie, le diffamazioni, le insinuazioni, le derisioni… e chi più ne ha più ne metta.
Sarebbe opportuno soffermarsi su ciascuna di queste “ingiustizie”, di cui probabilmente nessuno di noi è perfettamente esente, ma lo faremo in un altra occasione.
Mi preme, invece, in questo complesso argomento, di riprendere un’affermazione fatta all’inizio di questa trattazione: sì bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e ai fratelli quello che è dei fratelli, ma anche a “Dio quello che è di Dio”. E forse, anzi senza forse, la prima giusta relazione dobbiamo averla proprio con Lui. Affermazione della massima importanza in una società e in una cultura laicista ed agnostica, nella società della “morte di Dio”. No Dio non è morto: quella che sta morendo, senza di Lui è la nostra società secolaristica e noi in essa… Quindi si connette con la giustizia la cosiddetta VIRTU’ DI RELIGIONE, che ci fa rendere a Dio, secondo le nostre minime possibilità, il culto che Gli è dovuto, allo scopo di riconoscere la Sua infinita grandezza e la Sua infinita bontà,
Il primo e più importante atto di religione è l’adorazione, con la quale tutto il nostro essere si prostra, con umiltà ed amore, dinanzi a Colui che è la fonte di ogni bene. Un’espressione liturgica e tradizionale di tale atteggiamento di adorazione è per esempio, la genuflessione lenta e profonda che dovremmo fare, entrando in Chiesa, dinanzi alla presenza reale di Gesù nell’Eucarestia e che spesso deformiamo in un rapido e insignificante sgambetto, piuttosto ridicolo che non religioso.
Sintomatico che lo spirito secolarista e dissacrante, oggi spesso introdottosi anche all’interno della Chiesa, tende ad eliminare questi segni di devozione esterna, proprio perché ha già eliminato la devozione interna alla mente e al cuore.
Non sarà inutile ricordare che il più sublime e completo atto di adorazione nella Nuova Alleanza con Dio è il sacrificio di Cristo sulla Croce, rinnovato misticamente, ma realmente, per mandato Suo agli Apostoli nell’ultima cena, in ogni celebrazione eucaristica, per cui la S. Messa, specialmente quella domenicale, incorniciata e resa possibile dal riposo festivo ed allietata dalla comunione fraterna dei fedeli, può essere considerata anche come un atto di doverosa giustizia verso Dio.
Ma in una visione più allargata e globale della vita cristiana, tutti gli atti di culto privati e pubblici, anzi tutte le giuste azioni dell’uomo, persino il mangiare e il bere, - insegna l’Apostolo Paolo – possono essere considerate, secondo l’espressione di San Pietro (1 Pt. 2, 5) “sacrifici spirituali graditi a Dio”. E allora, come conseguenza logica, la più grande ingiustizia nei confronti di Dio, dei fratelli e di noi stessi, è vivere senza Grazia di Dio, misconoscendo e vanificando il suo armonioso disegno universale di salvezza. Tragica possibilità del nostro libero arbitrio! Vale la pena farci su un pensierino…
LA FEDE
Abbiamo parlato delle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, che si chiamano appunto “cardinali” perché sono “cardini”, fondamento di tutti gli altri atteggiamenti virtuosi. Ma il nostro discorso necessita di andare più a fondo, perché la nostra vita spirituale, per essere veramente tale, deve regolare in modo giusto e conveniente innanzitutto il nostro rapporto con Dio e questo è il compito delle virtù teologali (= che si riferiscono a Dio) della fede, della speranza e della carità.
Ed incominciamo allora con la fede.
Piuttosto che dare una definizione strettamente teorica e dottrinale della virtù della fede, cercherò di esprimermi con termini semplici e con immagini tratte dalla vita quotidiana, rischiando naturalmente qualche approssimazione ed imprecisione.
A cosa posso paragonare la fede? Ad una specie di “radar” che riesce a raggiungere e percepire delle realtà che superano e sfuggono alla verifica dei nostri sensi, tanto limitati (da qui si capisce subito che il più grosso ostacolo alla fede è forse la nostra presunzione razionalistica e il nostro orgoglio, che non ammette realtà che trascendono le capacità della nostra mente ed esperienza umana. Un po’ come S. Tommaso dinanzi alla prospettiva della risurrezione di Gesù…)
Ma un radar non agisce da solo: ha bisogno di qualcuno che lo voglia e lo sappia maneggiare. Così la fede è un atto dell’intelletto, perché si tratta di conoscere delle verità, ma non essendo queste verità intrinsecamente evidenti, la nostra adesione di fede non può farsi senza l’influsso della volontà. Ma non basta. Trattandosi di verità soprannaturali deve intervenire anche la Grazia (o aiuto di Dio) per illuminare l’intelletto e aiutare la volontà nel suo assenso. La fede è, dunque, dono di Dio, ma richiede l’impegno dell’intelletto e della volontà umana. Diciamo subito anche che la fede, per essere completa e salvifica, non può limitarsi ad essere un’adesione intellettuale, ma deve essere abbandono fiducioso e confidente in Dio, cioè deve essere unita, quasi impastata, con le altre due virtù teologali della speranza e della carità.
Mi pare che in tal modo sia superfluo sottolineare quanto la fede sia essenziale ad un rapporto vitale con Dio, che senza di lei manca di fondamento.
Per questo il Concilio di Trento afferma che la fede “è il principio, il fondamento, la radice della nostra giustificazione”. Insomma, senza fede non è possibile stabilire un rapporto di salvezza con Dio.
Per focalizzare meglio il nostro discorso è forse utile spazzare il nostro cammino da false o incomplete immagini della fede:
 La fede non è puro sentimento, emotività superficiale e passeggera. Un movimento di commozione spirituale determinato da un canto o da una situazione particolare, non può dirsi un atto di fede, anche se può esserne accidentalmente inizio, una spinta…
 Al limite opposto non si può dire fede, in senso salvifico e completo, l’assenso ad una verità, per esempio l’accettazione puramente intellettuale dell’esistenza di Dio. Scrive l’Apostolo Giacomo: “Tu ti limiti a credere che c’è un solo Dio? Ma anche i demoni lo credono e tremano” (Giac. 2,19).
 Fede vera e vitale non è neppure l’adempimento formalistico e macchinale (per abitudine?) di riti o di leggi morali.
 Fede non è folclore. E qui dobbiamo far bene attenzione noi che viviamo in zone in cui sono profondamente radicate tradizioni ed usanze, che hanno avuto certamente un’origine religiosa e tuttora mantengono aspetti religiosi (come la festa di un santo, una processione che parte da una chiesa ecc. ecc.), ma che, per ignoranza o fanatismo, si sono andate gradualmente svuotando di valori e sono rimaste a livello di gare sportive o di spettacoli popolari o poco più. L’aver partecipato ad una processione sgranocchiando ceci e semi di zucca abbrustoliti, chiacchierando di tutto e su tutti o addirittura dando sguardi maliziosi a destra e a sinistra; il portare una bara facendo sfoggio dei propri muscoli e forse anche lasciando andare qualche bestemmia (cose purtroppo udite con le mie orecchie!) son cose che non manifestano una fede genuina, ma piuttosto una voglia di folclore, di festa paesana.
 Fede non è superstizione, come la “catena di S. Antonio” o di P. Pio, o di S. Rita consistenti nel copiare una preghiera a detti santi un certo numero di volte ed inviarla ad altrettante persone che a loro volta…., o cose simili. Con la promessa di grazie particolari facendolo o di disgrazie e punizioni se si è inadempienti. Fede questa? No, stupida superstizione molto atta a discreditare la vera religione presso le persone intelligenti (se vi capitasse qualcuna di queste missive farete molto bene a stracciarle senza scrupolo e bloccare queste sciocchezze, sotto le quali potrebbe anche nascondersi qualche abile manovra commerciale, come la vendita di lumini ecc.).
La lista delle falsificazioni della fede potrebbe probabilmente continuare a lungo, ma a noi più che denunciare ciò che fede non è, interessa definire, invece, ciò che è la vera fede. 
Lo faremo sempre con esempi pratici più che con definizioni teoriche. E con tanto più calore quanto più ci sembra di vivere in un periodo di fede debole se non proprio di eclissi della fede.
E la Parola di Dio non cambia, per cui, come leggiamo in Marco 16,16 “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”.
In riferimento al suo sviluppo in ciascuno di noi, potremmo anche paragonare la fede ad un seme divino, immesso (seminato) in noi, insieme a quello della speranza e della carità, al momento del Battesimo (di qui l’importanza del Battesimo anche ai bambini, non solo per cancellare in loro il peccato originale e renderli figli di Dio, ma per introdurli gradualmente in un rapporto intimo e personale con Lui).
E’ chiaro che ogni seme per germogliare e svilupparsi ha bisogno di trovare un terreno adatto (il clima di fede di una famiglia cristiana!), di essere protetto, coltivato, nutrito. Ma come in pratica?
 Con la preghiera assidua (soprattutto quella di ascolto…)
 Con la grazia dei sacramenti. Chi trascura la pratica liturgica e sacramentale con il pretesto di mantenere la fede nel cuore anche senza di essa, si potrebbe paragonare ad uno che pretendesse mantenere in vita una pianticella, magari ancora tenera (gli adolescenti che non vanno più in chiesa!) senza bagnarla mai. Potrà durare un po’, ma poi s’infiacchirà ed incomincerà a seccare. Certamente non porterà molto frutto.
 Importante anche, per lo sviluppo della fede, la purezza dei pensieri e dei costumi, secondo la parola di Gesù: “Beati i puri di cuore, perché…”. Certe crisi di fede adolescenziali o giovanili hanno qui un motivo molto più frequente e realistico che non altre ragioni teoriche…
 Determinante poi per la conservazione e lo sviluppo della fede soprattutto nelle nuove generazioni l’esempio reciproco. L’ambiente – soprattutto quello familiare – influisce moltissimo… Persino persone notoriamente non religiose, non possono non ricordare la fede semplice ma profonda dei propri genitori e tale commozione è indice di un segreto richiamo alle proprie radici, di cui spesso lo Spirito Santo si serve per richiamare un’anima e salvarla… E quello che si dice per la famiglia vale anche per l’ambiente parrocchiale, sociale, scolare in cui si è passati. Di qui l’urgenza di ricreare nei nostri paesi ambienti vivi di fede e di santità, che siano come fecondi vivai di nuove generazioni veramente cristiane…
 Un ultimo accenno, riguardo a questo tema dello sviluppo della fede, non possiamo omettere l’importanza dell’istruzione religiosa. L’ignoranza religiosa non è amica della fede. La non conoscenza dei termini della fede o, forse più ancora, le mezze conoscenze in persone presuntuose, produce una nebulosità mentale dannosissima e paralizzante del nostro rapporto di fede e di amore con Dio. “Catechismo della Chiesa Cattolica”.
Come vedete, ce n’è per tutti. Se il patrimonio inapprezzabile della nostra fede cattolica va deteriorandosi progressivamente, fino al punto di far definire la nostra “un’epoca post-cristiana” o “della morte di Dio”, questo è certamente anche colpa nostra perché non abbiamo coltivato in noi una fede contagiosa ed irradiante e non ci siamo sufficientemente impegnati a propagarla.
E qui si apre il discorso, tanto caro a Giovanni Paolo II, della “nuova evangelizzazione”. 
La fede, come tutti i fenomeni divini, è una realtà dinamica. Di natura sua tende ad espandersi, comunicarsi, un po’ come il fuoco che, divampando, tende a diventare incendio; altrimenti si esaurisce e si estingue. Se pretendiamo tener la nostra fede nascosta nel nostro intimo (“Io mi faccio i fatti miei; degli altri non mi interessa…”), finiamo col soffocarla. Anche perché Dio ha voluto la comunità dei credenti come una comunione universale (Ecclesia catholica) e tutto ciò che non si apre a questa universalità voluta da Gesù (“Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” Mt 28, 19-20) non è autenticamente cristiano. 
In molti di noi, che pur ci riteniamo cristiani, c’è dunque una grande conversione da operare: far passare la nostra fede da un fenomeno unicamente personale (è fuori dubbio che la fede stabilisca un rapporto personale con Dio), ad un’ardente passione, ad un bruciante desiderio di comunicare agli altri i suoi tesori. 
Sarebbe anche il modo di superare la debolezza e l’anemia della nostra fede stessa, perché è donando che si riceve. Una comunità ecclesiale ripiegata su se stessa e priva di slancio missionario, è una comunità moribonda, se non già morta… 
Si, ho l’impressione che la fede (cattolica) in Europa stia languendo soprattutto per mancanza di spirito missionario: sacerdoti burocrati ed “impiegati” di Chiesa, battezzati perbenisti ed individualisti, ma non evangelizzatori e diffusori del Regno di Dio… 
Prova ne sia che confessando, mentre sento spesso gente che si accusa di non essere andata a Messa la domenica (e fa bene ad accusarsene!) e persino di aver trascurato la recita del Rosario, non sento mai, o quasi mai, gente che si accusa di aver trascurato occasioni per far apostolato, per annunciare Cristo ai fratelli… i cosiddetti peccati di omissione.
In genere due sono i pretesti che ci bloccano in questo nostro dovere missionario esigito dal nostro battesimo ed ulteriormente sottolineato dalla cresima: 1) Ci sentiamo incapaci a trasmettere la fede, a parlare agli altri di Dio… 2) Abbiamo paura dei rischi connessi nel prendere posizioni apertamente cristiane dinanzi a persone o in ambienti agnostici (oggi molto diffusi), se non altro del rischio di essere beffati e presi in giro come bigotti o baciapile…
Riguardo alla prima difficoltà, basterebbe ricordare che l’evangelizzazione (“fides ex auditu”, afferma Paolo) avviene a diversi livelli ed attraverso diversi canali. Non tutti certamente possiamo pretendere di avere la preparazione teologica dei grandi evangelizzatori e missionari alla S. Paolo, ma tutti possiamo dire una buona parola “ricca di fede” vissuta… Le nostre buone nonne… 
E lo Spirito Santo si serve anche di questi minuscoli semi per fare germogliare la fede nel cuore dei nostri fratelli… 
E poi ancora ricordiamo che anche i nostri atteggiamenti parlano: ci sono delle umili suore d’ospedale che hanno convertito più cuori induriti e lontani con il loro delicato servizio e il loro sorriso, che non forse grandi e famosi predicatori. 
Sì, tutti possiamo e dobbiamo predicare con l’esempio di una vita veramente evangelica, tutti dobbiamo essere Vangelo vivente dinanzi ad un mondo che non crede più, e non crede più soprattutto alle parole, perché ne sente troppe; ma si lascia convincere e commuovere dinanzi all’esempio di una vita intessuta di valori evangelici. 
E’ per questo che nella lettera pastorale “Novo Millennio Ineunte” il Papa Giovanni Paolo II dice che bisogna partire per la nuova evangelizzazione del mondo contemporaneo incominciando dalla santità…
Riguardo alla seconda difficoltà, cioè la paura di piccoli o grandi rischi cui si potrebbe incorrere nella testimonianza aperta della nostra fede, si potrebbe ricordare che Gesù stesso non ha esitato ad affrontare, fino alla morte in croce, l’avversione e l’odio della classe ebraica dirigente, e dopo di Lui tutti gli Apostoli (tranne forse Giovanni) hanno bevuto lo stesso calice del martirio; anzi che i primi tre secoli del cristianesimo (fino alla pace di Costantino) sono stati immersi in un fiume di sangue di centinaia di migliaia di martiri di tutti i sessi, condizioni di vita ed età, non esclusi i bambini. E la prova del martirio, con più o meno intensità, ha sempre accompagnato questi duemila anni di storia della Chiesa, non escluso il testè trascorso secolo XX, che è stato uno di quelli più irrorati di sangue cristiano, se si tiene conto dei milioni di persone uccise in odio alla fede cristiana, soprattutto cattolica, nelle immense regioni sottoposte al comunismo ateo, o all’integralismo mussulmano (vedi anche oggi il genocidio dei cristiani nel Sudan o in alcune zone dell’Asia come l’Indonesia). Come potremmo dimenticare l’eroismo di tanti nostri fratelli, vivendo un cristianesimo pavido, camuffato, egoista? Non ha detto Gesù che chi si sarebbe vergognato di Lui davanti agli uomini, lui stesso si sarebbe vergognato di loro dinanzi al Padre suo?     
Abbiamo già iniziato a parlare della virtù teologale della fede, che, essendo (come la definisce il Concilio di Trento) “il principio, il fondamento, la radice” del nostro rapporto con Dio e, quindi, della nostra salvezza (=giustificazione) e della nostra santificazione, fondamento di tutto le virtù cristiane, richiederebbe un discorso senza fine. Ma noi non vogliamo fare una trattazione esauriente e completa di argomenti di teologia cattolica, ma ben più modestamente dire qualcosa in stile semplice e comprensibile a tutti, per alimentare un pochino la nostra vita cristiana, oggi purtroppo notevolmente denutrita.
Per esempio, vorrei accennarvi qualcosa su quello che siamo soliti chiamare Spirito di Fede, ossia l’abitudine (acquisita, e dunque virtù…) a guardare e giudicare tutto secondo i principi di fede: cose, persone, eventi. Un modo di pensare e giudicare che va oltre le apparenze immediate e si riporta alle parole e agli esempi di Gesù (un Gesù, certo, ardentemente amato – ecco perché la virtù teologale della fede non può in pratica, ma solo concettualmente, essere separata dalle altre due virtù teologali della speranza e della carità…), conosciuto e ricercato nella Sua parola e nei Suoi esempi; un Gesù divenuto punto di riferimento costante e centro dei nostri pensieri ed aspirazioni; un Gesù incontrato continuamente nella preghiera, soprattutto nella preghiera di ascolto). Facciamo un esempio pratico: nel cammino della vita ci incontriamo in momenti difficili, in difficoltà molto dolorose, in prove che non ci saremmo aspettati (dal campo fisico – la morte di persone care – a quello affettivo e persino spirituale, per non dire quello economico…). Chi di noi può ritenersi totalmente esente da simili prove? Ma come si reagisce a tali difficoltà? L’uomo di mentalità materialista e pagana (anche se va in chiesa) si ribella, si dispera, si deprime e può giungere persino all’orribile stupidità della bestemmia (cioè sputare in faccia a Dio) o a dichiarare di aver perso la fede (ma ce l’aveva?). L’uomo di fede, il vero cristiano, invece, si rapporta immediatamente a Dio e al Suo amore paterno e fa questo semplicissimo ragionamento: se Dio, che mi ama come un padre (e di questo non dubito minimamente), ha permesso questa prova, ci sarà certamente un bene per me e per altri, che forse mi sfugge, ma che non devo lasciar passare invano. Anzi, in questi casi, il pensiero dell’uomo di fede corre spontaneamente al Fratello ed Amico Divino, Gesù, l’Uomo dei dolori e si sente da Lui interpellato, come se Gesù gli chiedesse: “Non vuoi aiutarmi a portare la croce per la salvezza del mondo?”. Ed allora non ribellione e rifiuto – neppure momentanei – ma accettazione amorosa, l’abbraccio alla croce (“se uno vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”). Certo, la natura geme (“se è possibile, passi da me questo calice...”), ma la forza della fede giunge al “sì” senza riserve. Si compie allora uno dei miracoli più evidenti della vita autenticamente cristiana: la gioia profonda ed indistruttibile pur nella sofferenza… Maria……padre Pio….. S. Paolo (“sovrabbondo di gioia nelle mie afflizioni…”).
Non è masochismo! E’ fede congiunta, come spesso abbiamo ripetuto, alla speranza ed all’amore. E quanta luce per chi vive nello spirito di fede! Mentre per gli increduli gli eventi della vita sono spesso oscuri e deprimenti, l’orizzonte dell’uomo di fede è sempre luminoso e si può ben dire che per lui la vita terrena, anche se prova dolorosa (anzi, soprattutto se prova dolorosa), è anticipazione del gaudio della Gerusalemme Celeste.
La conclusione pratica, allora, quale dovrebbe essere? Che chi vuol fare un vero cammino cristiano non può limitarsi ad una fede teorica, cioè a non negare le verità rivelate, ma deve vivere una vita di fede, come scrive S. Paolo ai Romani: “Il giusto vivrà mediante la fede” (1,17). S. Tommaso d’Aquino, esprimendosi con la sua nitida chiarezza, dice “L’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà enunciata”, trasfondendola nella propria vita.
Ciò non toglie che l’enunciazione della fede sia cosa estremamente importante e delicata. Fin dalle sue origini apostoliche, la Chiesa, che è “colonna e sostegno della verità” (1 Tim. 3,15) conserva gelosamente il deposito della fede ricevuto da Cristo e dagli Apostoli e contenuto nella Parola di Dio scritta nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e nella Tradizione (parimenti apostolica) trasmettendolo di generazione in generazione con scrupolosa fedeltà. S. Ireneo di Lione, testimone di questa fede, dichiara: “In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino all’estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede…, conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un’unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una stessa anima e un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca” (Adversus Haereses). 
Lo stesso prosegue: “Infatti, se le lingue del mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (= in Gallia), né quelle dell’Oriente, dell’Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo… Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza” (Ibid.). “Questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, la conserviamo con cura, perché, sotto l’azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso (il magistero?), continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” (Ibid.).
Credere, dunque, è anche un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede (personale). La Chiesa è la madre di tutti i credenti e per questo S. Cipriano di Cartagine (un altro grande Padre dei primi secoli cristiani) afferma categoricamente: “Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre”. 
Per questo, nel rituale del Battesimo, il ministro chiede al battezzando o al suo padrino o madrina: “Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?” e la risposta è: “La fede”. “Che cosa ti dona la fede?” “La vita eterna”.
Il prezioso deposito della fede è, dunque, affidato alla Chiesa, che lo trasmette e lo difende con l’assistenza dello Spirito Santo. E’ un deposito definitivo, non passerà mai, né potrà essere aumentato o modificato da altre “rivelazioni”, né pubbliche, né “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall’Autorità della Chiesa (per esempio, le rivelazioni del S. Cuore a S. Margherita M. Alocoque a Paray lo Monial). Esse non appartengono tuttavia al deposito della fede. Il loro ruolo non è quello di “migliorare” o di “completare” la rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica (vedi il Giansenismo al tempo di S. Margherita M. Alocoque). 
La fede cristiana non può accettare “rivelazioni” che pretendono di superare o correggere la Rivelazione (con la R maiuscola!) di cui Cristo è il compimento definitivo, com’è il caso di alcune recenti sette che si fondano su tali “rivelazioni”. Dio ha detto tutto nel Suo Verbo, che è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre. Perciò il dottore mistico San Giovanni della Croce scrive, nel suo libro “Salita al Monte Carmelo”: “Chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità”. Utilissimo avvertimento per un certo prurito misticheggiante oggi abbastanza di moda…
Ciò non toglie che, grazie all’assistenza dello Spirito Santo, l’intelligenza, la comprensione, l’esplicitazione dell’immutabile deposito della fede possa crescere ed approfondirsi nella Chiesa. E’ il cosiddetto “sviluppo dogmatico”, che permette al Magistero della Chiesa, per il bene della nostra vita spirituale, di definire come dogma di fede (cioè da accettarsi con irrevocabile adesione di fede) verità contenute nella Rivelazione (cioè nella S. Scrittura e nella Tradizione Apostolica), oppure verità che a quelle sono necessariamente collegate. E’ stato, per esempio, il caso dei dogmi dell’Immacolata Concezione di Maria (1854), dell’infallibilità del Papa nelle solenni definizioni in campo di fede o di morale (1870), dell’Assunzione della Vergine (1950).
Il Concilio Vaticano II (Costituzione “Dei Verbum”, 10) così afferma: “E’ chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”. Sta qui una delle principali, se non la principale, differenza tra cattolici e protestanti.
Sarà ancora utile ricordare che, nel corso dei secoli, la Chiesa ha sintetizzato l’enunciazione delle principali verità di fede in alcune formulazioni, le principali delle quali sono due: il Simbolo (= riassunto) degli Apostoli e il Credo - un po’ più diffuso - di Nicea – Costantinopoli, che proclamiamo nella liturgia eucaristica ogni domenica o solennità.
Penso che, nonostante che le nostre non pretendono di essere più che “briciole”, dovremmo ritornare sull’argomento della fede, per esempio per riflettere sul rapporto spesso esasperato tra ragione e fede. Ma, per ora, concludiamo dicendo che qualsiasi menomazione dell’integrità della fede produce inevitabilmente l’abbassarsi, o addirittura il crollo, della spiritualità cristiana. Tanto basti per renderci molto vigilanti su questo tema.
LA SPERANZA
 Dopo la fede dovremmo fare qualche accenno alla seconda virtù teologale (cioè che ha Dio per oggetto diretto): la speranza, ossia il desiderio di giungere a Dio, di possederLo eternamente; la confidenza e fiducia che, nella Sua bontà e misericordia, Egli ci trarrà a sé, dopo questa breve e faticosa prova terrena. Se possiamo esprimerci così, la speranza teologale è la fede che si fa desiderio e quasi pregustazione delle realtà future. La speranza è “attesa” di quella eredità che Dio ha preparato per noi suoi figli, attesa dei beni escatologici. S. Paolo scrive (1 Cor. 2, 9): <Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano>. E S. Giovanni (1 Giov. 3, 2): <Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarò manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è>.
 La speranza ha, perciò, come oggetto ciò che non si vede, ma che noi, tuttavia, come dice S. Paolo, “attendiamo con perseveranza” (Rm. 8, 25), sapendo dalla fede che esso procurerà una felicità immensa. La speranza teologale è un dono gratuito di Dio, un cammino gioioso, pur tra le inevitabili prove della vita, verso la luce e l’amore eterno. La speranza è talmente essenziale a noi cristiani, alla nostra identità specifica che, a differenza dei pagani di ogni tempo, possiamo essere definiti come coloro che “hanno speranza”.
 Detto questo è facile dedurre la funzione essenziale di questa virtù teologale nella nostra vita cristiana e spirituale, specialmente in questo tempo di appiattimento materialistico e di crisi esistenziali tra giovani ed anziani. La speranza genera, infatti, una ricca varietà di comportamenti indispensabili allo sviluppo della vita divina in noi, cioè alla santità. Vediamone qualcuno:

 La fiducia 
Non in noi stessi, ma nella promessa divina, cui ci affidiamo totalmente, superando ogni dubbio ed incertezza, ogni preoccupazione, ogni paura, ogni angoscia. Persino e soprattutto, la paura di fronte alla morte. Il cristiano dotato di speranza è una persona perennemente serena e che diffonde serenità attorno a sé, come avveniva in modo stupendo nei santi. S. Francesco: “Iacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet; non dabit in aeternum fluctuationem iusto” (Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno, mai permetterà che il giusto vacilli).

 La pazienza 
Come quella dell’agricoltore, il quale “aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra” (Giac. 5, 8). Pazienza necessaria a tutti, specialmente in certe circostanze dolorose della vita. Pensiamo a certe lunghe e strazianti malattie, a certi travagli familiari, a certi rovesci di fortuna e chi più ne ha, più ne metta, dato che nella vita la croce, prima o poi, in un modo o nell’altro, non manca a nessuno. Persino l’inferno, se ci fosse speranza di uscirne, non sarebbe più inferno…

 Il coraggio
E quanto ce ne vuole per affrontare le battaglie della vita! Il coraggio anche, di testimoniare sempre il Vangelo, anche quando costa…

 La gioia
La speranza teologale è ben più di una ipotesi nebulosa, per cui talvolta si sente gente che dice: “Mah, speriamo che dopo la morte ci sia qualcosa…” con una espressione titubante e quasi rassegnata che non sia così… La speranza cristiana è gioiosa certezza della gloria futura e ci fa vivere la vita nel tempo come radiosa vigilia di un giorno senza tramonto nel trionfo di Cristo Risorto, che ci attende nella Sua gloria.
Sentiamo l’apostolo Pietro: <Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella Sua grande misericordia Egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, PER UNA SPERANZA VIVA, in un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce… Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere per un po’ di tempo afflitti da varie prove…> (1 Pt. 1, 3 segg.). Il cristiano e la gioia sono tutt’uno, perché nessuno più di un vero cristiano ha una certezza più grandiosa e più sicura.
Nulla è più antitetico e contro testimoniante alla vita cristiana che il pessimismo, la malinconia, la musoneria, la sfiducia…Un cristiano triste – è stato detto – è un triste cristiano…Basterebbe ricordare, tra i tantissimi testi biblici a questo riguardo, ciò che esclama S. Paolo: <Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione> (2 Cor. 7, 4).

 La preghiera
Sarebbe impossibile pregare, se non avessimo almeno un briciolo di speranza. Anche le preghiere che nascono dai cuori più provati, già nell’Antico Testamento (vedasi Giobbe 3 o qualche salmo), manifestano la fiducia di un intervento di Dio, attendono ansiosamente una Sua risposta. Naturalmente più cresce la fiducia, la speranza, più la preghiera aumenta la sua efficacia, come dimostrano molti episodi evangelici.

 La speranza cristiana genera anche opere d’amore. 
Anche in situazioni umane disperate (carcerati, incurabili, pazzi, moribondi ecc.) il cristiano spera contro ogni speranza, ancorandosi in Dio ed agendo in conseguenza. Perciò anche le strutture della società terrena possono essere toccate dalla novità e dalla forza della speranza cristiana.
L’elenco degli atteggiamenti umani e cristiani sostenuti dalla virtù teologale della speranza potrebbe continuare, ma anche solo i pochi accenni fatti sono sufficienti a persuaderci che grande forza questa virtù costituisca per la nostra vita cristiana. Facendoci tendere con forza alla realtà futura, ai beni che non passano, la speranza teologale rende sciolto e deciso il nostro cammino verso l’Amore, verso la santità.
Essa aumenta le nostre energie, il nostro slancio nel fare il bene. Se nel mondo si fanno spesso sforzi disperati, si affrontano lotte e fatiche di ogni genere per raggiungere risultati materiali (e come tali mai totalmente soddisfacenti), quanto più noi cristiani, sorretti dalla certezza dell’intervento di Dio e della vittoria finale, potremo impegnarci in cose belle e sante, anche quando trascendono le nostre deboli forze…I Santi, uomini e donne della speranza, ci sono splendidi esempi in materia: basti pensare cosa è riuscita ad operare quella piccola donna rugosa che fu M. Teresa, a livello mondiale, e come lei e prima di lei, un D. Bosco, un D. Orione, un Cottolengo e mille altri. E cosa riusciremmo ad operare noi, nel nostro piccolo, se ci nutrissimo di più di speranza. Non presuntuosi, perché ben sappiamo che tutto dipende da Dio e senza di Lui non possiamo fare nulla di buono; ma neppure scoraggiati e, tanto meno, disperati. Il vero cristiano non si preoccupa troppo delle avversità terrene, ma cammina deciso e spedito verso i beni futuri. Non si disinteressa delle cose della terra, ma neppure vi ci si lascia invischiare e trattenere. Nessuno è impegnato come lui, ma nello stesso tempo libero come lui, perché il suo cuore è colmo di fiducia in Dio e il suo sguardo spazia su orizzonti che trascendono la scena del mondo presente.
Sappiamo anche che nei gradi più alti la speranza cristiana diventa spirito d’abbandono in Dio. Ci sentiamo come piccoli bambini nelle Sue braccia di Padre, ci lasciamo portare da Lui dovunque a Lui piaccia, diventiamo strumenti docili del Suo amore.
E’ “la piccola via” praticata ed insegnata dalla piccola Santa di Lisieux, Teresina del Bambin Gesù, che ha condotto verso i vertici dell’amore e dell’offerta di sé, centinaia di migliaia di anime. E su questa via si vive amando e si muore cantando. Per questo S. Francesco, giullare di Dio, era solito ripetere: <E’ tanto il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto!>, e così esortava i suoi frati: <Abbiamo promesso grandi cose, maggiori sono state promesse a noi; osserviamo quelle e aspiriamo a queste. Il piacere è breve, la pena eterna; piccola la sofferenza, infinita la gloria>. E vivendo con questa incrollabile speranza, morì cantando. Scrive di lui il suo primo biografo, fra Tommaso da Celano: <Sentendo che l’ora della morte era ormai imminente, chiamò a sé due dei suoi frati e figli prediletti, perché a piena voce cantassero le lodi al Signore con animo gioioso per l’approssimarsi della morte, anzi della vera vita>.
E’ quello che auguro a me e a voi, perché possiamo tutti cooperare a ridare speranza e certezza ad un mondo sbandato e demotivato e spesso disperato e deluso dinanzi ai suoi idoli materialistici, perché soltanto il nostro Dio è il Dio della speranza, in Cristo Gesù morto e risorto per noi!
LA CARITA’
Dopo aver detto qualcosa sulle due prime virtù teologali (che hanno direttamente Dio per oggetto) della fede e della speranza, ci rimane da soffermarci un poco sulla terza, che è la Carità.
 E siamo al cuore del cristianesimo e dell’Incarnazione del figlio di Dio, che è venuto tra noi proprio per questo: per riaccendere in pienezza il fuoco dell’amore a Dio e ai fratelli nel cuore dell’uomo, raggelato dal lungo dominio del peccato, che è essenzialmente il contrario dell’amore. Tutto il messaggio dell’A.T. non era che una preparazione a questo riaccendersi della pienezza dell’amore: “Pieno compimento della legge è l’amore!” (Rom 13, 10).
 Anzi, l’apostolo Giovanni insiste che la stessa vita del Dio Trino ed Unico è l’amore nella sua pienezza divina: “Deus charitas est!” (1 Giov 4, 16). E questo amore viene partecipato e diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, per i meriti infiniti di Gesù, che si è cruentemente offerto al Padre per amore di Lui e di noi, sue creature, divenuti in Maria suoi stessi fratelli. L’amore è il centro focale del cristianesimo, è il punto di raccordo di tutti i suoi aspetti, la linfa vitale e profonda della vita della Chiesa, comunità d’amore, e, nella sua pienezza beatificante nella Gerusalemme del Cielo, il punto di tensione massima dell’anima cristiana.
 Il discorso qui non finirebbe mai, perché ci troviamo dinanzi a panorami eterni ed infiniti! 
 L’amore (o carità), nella sua sostanziale unità, ha però due direzioni, una verticale, l’altra orizzontale, come le braccia della Croce: l’amore verso Dio e l’amore verso i fratelli. Due aspetti che non si possono mai separare, perché presi a sé stanti, risultano incompleti o addirittura falsificati: “Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Giov. 4, 20-21).
 E ancora: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di Lui è perfetto in noi” (1 Giov. 4, 11-12). In altre parole, l’amore ai fratelli è il banco di prova (di autenticazione) dell’amore a Dio.
Ma qui il discorso deve farsi molto concreto, com’è concreto “il prossimo” che ci circonda. In nessun altro punto come in questo un discorso evanescente risulterebbe farisaico. Ricordate la domanda di un dottore della legge, che voleva mettere alla prova Gesù (Lc. 10, 25-37)? “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge (mosaica)? Che cosa vi leggi?". Costui rispose (esattamente, dal Deuteronomio e dal Levitino, da buon dottore della Legge): "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso". E Gesù: "Hai risposto bene; fà questo e vivrai". Ma quegli, volendo giustificarsi (certo molti interrogativi e molti dubbi che portiamo spesso in ballo non sono che un larvato tentativo di mascherare le nostre inadempienze e il nostro peccato…), disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo?". Sappiamo che nella mentalità ebraica, ancor tanto imperfetta nei confronti della pienezza evangelica, che “prossimo” erano i membri del Popolo di Israele. Gli altri erano i “goim”, gli infedeli, spesso odiati e combattuti.
Gesù rispose:
"Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso". 
La conclusione? "Và e anche tu fà lo stesso", vale anche per noi!
Facendo attenzione a tutto l’insegnamento di Gesù sull’amore al prossimo, vi potremmo individuare tre livelli progressivi:
1. Amare il prossimo come noi stessi… E’già molto, certamente, data l’attenzione e la preoccupazione egocentriche che noi spesso manifestiamo…
2. Nel discorso d’addio: “ Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati” (Giov. 15, 12). E’ un salto qualitativo enorme… Divenire “eucaristia” per i fratelli…
3. Quando il discorso d’addio ai discepoli si trasforma in preghiera al Padre, Gesù dice: “Come Tu, Padre, sei in Me e Io in TE, siano anch’essi UNA COSA SOLA perché il mondo creda che Tu mi hai mandato” (Giov. 17, 21).
L’unione tra i discepoli di Cristo dovrebbe essere talmente profonda, totale ed indissolubile da non poter avere altra immagine e punto di confronto adeguati se non la perfetta unità di natura divina tra le tre Persone della SS. Trinità! Meta sublime e praticamente irraggiungibile su questa terra, ma che risulta un continuo stimolo a non adagiarci soddisfatti sui risultati raggiunti. E’ qui dove probabilmente faremmo bene a prendere come schema del nostro esame di coscienza il famoso “inno alla carità” nel cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.
Se avete contato bene, sono quindici aspetti o prerogative della carità, che costituiscono altrettante sferzate al nostro amor proprio e dalle quali nessuno di noi, proprio nessuno, credo, può ritenersi immune. E sarà bene ricordarcene quando andiamo a confessarci e diciamo di non aver nulla da accusare…
 E’ sul banco della carità, com’è presentata dalla Parola di Dio, che si gioca e si misura l’autenticità del nostro cristianesimo, non su santini, apparizioni (con tutto il rispetto per quelle vere…), veggenti, devozioncelle varie. Ci sono persone che vanno a Messa tutte le domeniche e le feste di precetto e poi non danno la giusta mercede ai propri operai ed impiegati, obbligandoli a lavorare in nero. Ci sono persone che ci tengono a definirsi cristiani praticanti, ma tutto praticano tranne la carità e la delicatezza per il prossimo più prossimo, che è quello di casa. Ci sono coloro che si credono buoni e disprezzano gli altri. E l’elenco potrebbe continuare. Bigotti, abitudinari, ipocriti non presentano che una grottesca caricatura del cristianesimo. Già nell’A. T. agli Ebrei che praticavano il digiuno e, nello stesso tempo, angariavano gli operai, Dio diceva (cfr. Isaia 58, 4-5): “Ecco, voi digiunate tra litigi ed alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi… E’ forse questo il digiuno che bramo?”
 Chi manca di carità dà una pessima contro testimonianza alla propria fede cristiana e probabilmente allontana parecchi da essa, tanto quanto era, invece, proprio lo spettacolo dell’amore fraterno dalle prime comunità cristiane quello che attirava molti pagani alla fede cristiana “Guarda come si amano!”, dicevano. E si convertivano. 
La tradizione racconta che Giovanni l’evangelista, vescovo della comunità cristiana di Efeso, giunto ad estrema vecchiaia, veniva trasportato a braccia a presiedere la celebrazione eucaristica…
E’ quello che auguro a me e a voi, qualunque sforzo di conversione dovessimo fare nella nostra vita quotidiana a questo riguardo. Altrimenti non ci sarebbe neppure senso che continuassimo a parlare di “spiritualità”. Neppure in “briciole”.
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