Da quel momento egli si pose al servizio di tre cose da tra loro inseparabili: l'Amore, l'Immaginazione e la Bellezza della poesia.
Tra le persone di queste coppie (Laura e Petrarca, Dante e Beatrice) non fu consumato alcun rapporto sul piano della realtà, eppure da quegli eventi del cuore scaturì la radicale trasformazione di tutta la cultura occidentale, che cominciò come trasformazione di ordine estetico; e a generarla fu la Bellezza.
Vi ho raccontato due piccoli grandi esempi di come l'Umanità è figlia di Afrodite; e di come l'Anima nasce nella bellezza e della bellezza si nutre, e di come ne ha bisogno per vivere. Sicché stasera vi dico che il nostro lavoro di fratelli massoni sarà vano se non diamo spazio, nei nostri cuori, alla bellezza che è, con la forza e la saggezza, l'essenza di ogni nostro lavoro.
La Bellezza è la grande categoria che si riferisce al Deus Revelatus, la teofania suprema dell'autorivelazione del divino.
Essa è la condizione indispensabile della creazione in quanto manifestazione.
La Bellezza è "l'anima mundi" manifesta, e non è, vi prego di notare, trascendente rispetto a ciò che è manifesto, e neppure nascostamente immanente in esso, bensì riguarda le apparenze in quanto tali, così come sono state create, nelle forme in cui sono date.
La bellezza di Afrodite rimanda alla superficie lucente di ciascun evento particolare, alla sua trasparenza, alla sua particolare brillantezza.
La Bellezza come la descrive Platone nel Fedro (250b) è il farsi manifesti degli Dei noumenici nascosti e di virtù impercettibili, solo la Bellezza ha avuto questa sorte, di essere ciò che è più manifesto e più amabile.
La Bellezza è dunque la percettibilità stessa (aìstesis) del cosmo, il suo essere attraente.
L'Alchimia chiamerebbe Sulfur questa lucentezza cosmica. Se la Bellezza è inerente ed essenziale all'Anima, allora essa appare ovunque appaia l'Anima. E' il concreto manifestarsi di Afrodite nella psiche, il suo sorriso nella lingua dei mortali.
La Bellezza dunque non è un attributo, quasi fosse una pelle avvolta intorno ad una virtù o il lato estetico dell'aspetto. Se accanto al Bene, al Vero e all'Uno non vi fosse il Bello, noi non li potremmo mai percepire, mai conoscere.
La Bellezza è, cioè, una necessità epistemologica, è il modo in cui gli Dei toccano i nostri sensi, ci raggiungono il cuore, ci attirano alla vita.
Al tempo stesso, la Bellezza è una necessità ontologica, cioè fonda il mondo nella sua molteplice particolarità sensibile. Senza Afrodite, il mondo sensibile sarebbe caos, materia amorfa, dati statistici.
Decisiva e illuminante è la definizione che Plotino dà della Bellezza e della Bruttezza: "Anche noi, quando siamo belli, è perché siamo conformi a noi stessi, mentre siamo brutti allorché trapassiamo in un'altra natura. (Enneadi, V, 8, 13) ... basta che l'anima incappi nella bruttezza e subito si ritrae in sé, dice no, gira la testa dall'altra parte, sentendosi non in armonia ed ostile". (Enneadi, I, 6, 2)
Eccola la risposta: quando ci sentiamo contratti, pieni di risentimento, non in armonia, vuol dire che siamo trapassati in una natura diversa e siamo stati irretiti dalla hybris dell'inflazione dell'io. E ciò al riguardo non solo dei rapporti interpersonali con i nostri simili, ma con ogni cosa animata e inanimata con la quale ci relazioniamo.
Quando ci facciamo beffe della natura delle cose tutte del mondo, quando non ne rispettiamo la loro anima, la loro bellezza tanto cara ad Afrodite, quando ignoriamo l'Anima Mundi, avremo reso di sicuro un cattivo servizio a noi stessi, avremo segregato la Bellezza nel ghetto delle cose serie, nei musei, negli edifici pubblici, nelle chiese, nelle stanze buie della canonica, imprigionando Afrodite.
Oggi il brutto è qualsiasi cosa che non notiamo più (il tempio, la nostra compagna di vita, ...), il brutto è il noioso; ed è questo che uccide il cuore.
La nostra salvezza è in Afrodite; e il primo modo per arrivare alla Dea è, per noi, nella malattia della sua assenza!
Dunque il problema del Male, come quello del Brutto, rimanda in primo luogo al nostro cuore anestetizzato, al cuore che non reagisce a quello che ha davanti e che, con ciò, trasforma il mondo che lo circonda in monotonia, in uniformità, in unità (esempio dei telefonini).
Eppure, sorprendentemente, quel deserto non è senza cuore perché il deserto è dove vive il leone; sicché se vogliamo ritrovare il cuore reattivo, dobbiamo andare la dove più sembrerebbe assente, nel deserto.
Si, il cuore va pro-vocato, fatto uscire, che è appunto l'etimologia che Marsilio Ficino dà della bellezza, che viene da Kallos o Kalos che a sua volta viene da Kaleo: "pro-vocare" "Il bello genera il bello". (Platone, Ippia Maggiore, 297b).
La bellezza deve essere provocata alla vita con il furore (Sulfur), la rabbia estrovertita, per scacciare la nostra pigra acquiescenza politica, il nostro carnivoro stordimento davanti al televisore, la paralisi per la quale il Pharmakon di Paracelso era l'oro, il metallo del leone.
Ciò che nel cuore è passivo, immobile, addormentato crea un deserto, e il deserto può essere curato dal suo stesso principio parentale, che esprime con un ruggito l'accudimento capace di ridestare alla vita. Questa è la via dell'Amore.
Più grande è il nostro deserto e più grande deve essere il nostro furore, e quel furore si chiama Amore. Le passioni dell'Anima rendono abitabile il deserto.
Noi non siamo una grotta scavata nella roccia, bensì il cuore che è dentro il leone. Il deserto non è in Egitto o nel Sahara; esso è dovunque si è disertato il cuore. I Santi non sono morti, essi vivono nelle passioni leonine dell'anima, nelle immagini che ci tentano, nelle fantasie sulfuree, nel risveglio della belva, nella sua zampa famelica, infuocata e insonne come il sole, esplosiva come lo zolfo che incendia l'anima. La belva del deserto è il custode del nostro desiderio afroditico nel deserto della burocrazia moderna, della bruttezza urbana, delle banalità accademiche, dell'aridità professionale e ufficiale.
In tutto Platone c'è un'unica preghiera, si trova alla fine del Fedro, il dialogo sulla bellezza; ed è rivolta da Socrate al Dio Pan: "... concedimi la bellezza interiore, quanto all'oro e ai beni esteriori, che siano in armonia con ciò che ho dentro".
Il dato curioso e che per Socrate la bellezza interiore ha a che vedere con Pan, il Dio-Caprone con la coda e le zampe pelose, unica tra le divinità greche maggiori ad avere fattezze bestiali. La preghiera di Socrate è rivolta ad un Dio-Animale, dunque. Questo vorrebbe dire che noi ci allontaniamo da Afrodite/Bellezza, trapassiamo in quell'altra natura (la bruttezza o - se si vuole - la negazione della bellezza) ogni volta che disertiamo l'animale, il leone santo o santo leonino che ci mantiene belli dentro. Il Re degli animali ci mantiene belli, ci nobilita in una proporzionalità regale.
Onorare Afrodite significa tutto questo, significa dare onore all'Opus Dei che con il titolo distintivo di Verità, da molti viene appellato, compreso John Keats, poeta tra i più grandi della letteratura inglese, che nel 1817 in Roma, scriveva: "Beauty is truth, truth beauty, - that is all Ye know on earth, and all ye need to know", "Bellezza è Verità e Verità è Bellezza. E' tutto quello che dobbiamo sapere sulla terra"
Matteo Licari